DOP e dintorni - Parte I: viva la tradizione se la si sa coniugare con l'innovazione
D.o.p. il controverso caso del Consorzio della Mozzarella di Bufala Campana DOP
Ormai sono in pochi a ricordarselo, ma fino a metà degli anni ’60 la Santa Messa iniziava così:
In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.
Amen.
Introíbo ad altáre Dei.
Ad Deum qui lætíficat iuventútem meam.
Iúdica me, Deus, et discérne cáusam meam de gente non sancta, ab hómine iníquo et dolóso érue me.
Quia tu es, Deus, fortitúdo mea: quare me repulísti? et quare tristis incédo, dum afflígit me inimícus?
Il sacerdote celebrava dando le spalle ai fedeli e si girava verso di loro solo per il fatidico “Dominus vobiscum” e per impartire la benedizione finale. Ovviamente quasi nessuno dei partecipanti capiva una parola di quanto diceva il celebrante, e rispondeva come poteva, cantilenando sillabe inventate di sana pianta, mutuate dai dialetti locali. Le uniche espressioni di senso compiuto pronunciate dai fedeli erano “Amen” e qualche volta “Et cum spiritu tuo”.
Ma, si sa, la Chiesa Cattolica non è una Istituzione come le altre: è lì da 20 secoli, ne ha passate di tutti i colori, ma pare proprio che non abbia alcuna voglia di arrendersi al mutare dei tempi e della cultura della gente. Quando si rese conto che i fedeli erano sempre più disamorati, anche a causa di una liturgia di cui non capivano un accidente, Papa Giovanni XXIII intuì la necessità di intervenire. Riunì quindi il proprio Consorzio di Tutela (che in Vaticano si chiama Concilio Ecumenico) e propose di rivoluzionare tutto, a cominciare dalla lingua e dalla posizione del sacerdote.
Non fu certo una decisione facile, tanto è vero che per prenderla ci vollero più di 3 anni (ed un altro Papa, Paolo VI), e non fu neanche indolore, perché si rischiò addirittura uno scisma, per le aspre critiche di chi riteneva che quella riforma rappresentasse un oltraggio intollerabile ad una tradizione bimillenaria.
La storia ha invece dimostrato che il Concilio ci aveva visto giusto, perché senza quella riforma il sacerdote si sarebbe forse ritrovato da solo a parlare e a darsi le risposte in latino.
Venendo ad un argomento molto più terra terra, che ha appena 30 anni di storia alle spalle, proviamo a capire, senza voler esser sacrileghi, se e come l’esperienza del Concilio Ecumenico Vaticano II può aiutarci a fare chiarezza sul funzionamento delle Indicazioni Geografiche: DOP, IGP e STG.
Queste sigle nacquero in Europa nel 1992 per salvaguardare le produzioni locali di alimenti e vini caratterizzati da una forte connotazione territoriale, in modo da esaltare le specificità della cultura, della biodiversità e del “saper fare” delle aree geografiche da cui provenivano.
Salvaguardarle da chi? Per rispondere bisogna fare un altro passo indietro nel tempo.
Per realizzare finalmente uno dei principali obiettivi che si era data già nel 1957 con i Trattati di Roma, l’UE si accingeva ad abbattere tutte le barriere doganali interne a partire dall’1.1.93. Sarebbe stato un passo epocale, considerato che la libera circolazione delle merci si sarebbe dovuta accompagnare a tutta una serie di nuove regole, necessarie per garantire a livello sopranazionale i requisiti minimi di qualità dei prodotti, con il rischio evidente che si modificassero in modo sostanziale le regole della concorrenza sui mercati e che da ciò traessero profitto soprattutto le grandi multinazionali, a discapito dei piccoli produttori locali.
Le Indicazioni Geografiche (IG) nacquero in pratica come contromisura per contrastare questo rischio ed evitare così che i territori rurali dell’Unione subissero conseguenze negative dalla adozione del Mercato Unico.
L’obiettivo dell’UE era chiaro: dare notorietà e rendere riconoscibili tutti quei piccoli patrimoni di qualità esistenti nelle diverse aree del Continente e particolarmente diffusi nell’area del Mediterraneo (Italia e Francia soprattutto, ma anche Spagna, Portogallo, Grecia, ecc.), in modo da difenderli dalle imitazioni e da forme di concorrenza sleale che avrebbero potuto cancellarli dal mercato, con conseguenze molto pesanti per la biodiversità, la cultura e l’economia delle aree rurali del Continente.
Per concedere questi marchi e garantirne la tutela, l’UE definì però dei precisi “paletti”, stabilendo che i richiedenti dovessero dimostrare:
- Quali erano le motivazioni di ordine storico, culturale e merceologico che rendevano i loro prodotti “diversi” e caratteristici di uno specifico territorio;
- L’esistenza di un protocollo condiviso (disciplinare) sulle materie prime, sulle modalità di produzione utilizzate, sulle caratteristiche finali del prodotto e sulla delimitazione dell’area geografica di provenienza dello stesso;
- Che non vi siano altri territori che possano risultare penalizzati dalla denominazione rivendicata;
- La disponibilità a subire, pagandoli di tasca propria, controlli da parte delle Autorità preposte, degli Enti di Certificazione designati e dei Consorzi di Tutela, quando riconosciuti, in modo da garantire al consumatore finale il rispetto dei requisiti previsti dal disciplinare.
In cambio, l’Unione Europea si impegnava a destinare risorse economiche importanti per far conoscere questi nuovi marchi e supportarne la diffusione non solo nel grande Mercato Unico, ma possibilmente anche nei mercati extraeuropei.
Una volta ottenuta la registrazione, tutto il sistema delle IG ruota intorno al disciplinare, che non è un documento immutabile nel tempo, ma che la stessa Unione Europea aveva previsto sin dall’inizio che andasse aggiornato tutte le volte che l’innovazione tecnologica, l’evoluzione dei mercati o le particolari contingenze di mercato lo avessero consigliato, in modo da rendere il prodotto sempre più competitivo e creare così ulteriore ricchezza ai comparti produttivi ed ai territori interessati.
Questo sistema di registrazione, tutela e controllo dei marchi di qualità si è rivelato un caso esemplare di successo di politica economica, tanto da essere ormai riconosciuto e adottato in quasi tutto il mondo, con la sola esclusione degli USA, dove continua ad essere osteggiato dalle grandi aziende del food. Ad oggi sono 3.093 i prodotti registrati in Europa e 30 quelli extra-europei riconosciuti. L’Italia è il Paese con i numeri più alti, con ben 838 registrazioni, di cui 526 vini.
In buona sostanza, l‘approccio dell’UE ricalca pari pari la logica e le tecniche con cui un’azienda privata gestisce i propri marchi, ma con gli aggiustamenti che si rendono necessari quando, come in questo caso, un marchio non è di proprietà di un singolo produttore, ma diventa invece “collettivo”.
Mentre infatti un’azienda privata può decidere autonomamente le strategie di posizionamento dei propri marchi sul mercato, definendo e controllando continuamente che i prodotti soddisfino (oltre ovviamente ai requisiti di legge) gli standard di qualità e di prezzo di volta in volta stabiliti dalla propria direzione, le aziende aderenti ad un marchio collettivo, qual è a tutti gli effetti una DOP o una IGP, per non far perdere credibilità al marchio devono necessariamente sottostare ad uno standard di qualità unico, che però può essere modificato tutte le volte che le evoluzioni del quadro tecnologico o commerciale lo rendano opportuno.
È per queste ragioni che, ad esempio, per rispondere alle richieste di un mercato che chiedeva prodotti a maggior “servizio”, i caseifici del Parmigiano Reggiano e del Grana Padano ed i prosciuttifici del Parma e del San Daniele hanno ottenuto senza problemi di modificare il disciplinare in modo da estendere la marchiatura DOP anche ai formaggi grattugiati e ai prosciutti affettati.
Sempre per le stesse ragioni, ovvero per approfittare delle nuove opportunità offerte dal mercato, i produttori delle due DOP dell’Aceto Balsamico Tradizionale (di Modena e di Reggio Emilia), che per disciplinare devono invecchiare almeno 12 anni, non si opposero nel 2009 al riconoscimento della IGP “Aceto Balsamico di Modena”, il cui disciplinare prevede appena 60 giorni di maturazione, con la conseguenza di ottenere una qualità e un prezzo di vendita enormemente inferiore, ma con un posizionamento di mercato completamente diverso.
Gli esempi sarebbero innumerevoli, ma ciò che è importante sottolineare è il ruolo fondamentale che la legge affida ai Consorzi di Tutela: non solo per promuovere i prodotti, ma anche per vigilare sulla qualità degli stessi, nell’interesse del consumatore, e per proporre all’UE modifiche al disciplinare, tutte le volte che queste sono ritenute opportune rispetto allo scenario di riferimento.
Per garantire che le decisioni e le strategie dei Consorzi siano rappresentative degli interessi di tutta la filiera, la legge stabilisce precisi criteri di rappresentatività delle varie componenti (agricoltori, allevatori, trasformatori, confezionatori, ecc.), tanto nelle Assemblee dei Soci che in seno ai Consigli di Amministrazione.
Questo è il quadro normativo, e quelli che abbiamo visto sono alcuni degli esempi virtuosi di come la corretta applicazione di questo quadro permetta di coniugare correttamente tradizione e innovazione. Peccato che non sia sempre così, come vedremo…
( domani scenderemo nel dettaglio riguardo il singolare caso della mozzarella di bufala campana dop)
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