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L'Inclemente: la pasticceria classica napoletana è morta?

La pasticceria napoletana è ancora valida? Sfogliatelle e babà tra pasticceria siciliana e pasteis de Belem

L'Inclemente: la pasticceria classica napoletana è morta?

How boring! La pasticceria classica napoletana è morta?

L'Inclemente: la pasticceria classica napoletana è morta?

Pasticceria napoletana, sei in salute? Oppure, come diciamo da queste parti, mentre ‘o miereco storea, ‘o malato more? (Mentre il medico si addottrina, nel frattempo il degente va nell’aldilà, ndr). Questo è un argomento che mi ronza in testa da parecchio, nonché uno dei primi discussi tra me e Antonio Lucifero – quando non avevamo ancora inteso bene di essere fratelli di penna e quindi ci annusavamo un po’ da lontano, guardinghi.

Scorsa settimana ho deciso definitivamente di mettere nero su bianco i miei dubbi. Complice, una piccola esperienza gastronomica avuta quasi per caso, fortuita e piacevole. Mi trovavo nella Campania interna, quindi lontana da mare o qualsivoglia richiamo di napoletanità. Mi fermo in una pasticceria (della quale non farò il nome, perché non è utile alla causa – chi vuole può chiedermelo in privato o nei commenti) e prendo dieci banali paste con crema pasticciera. Ne mangio una, avidamente. La pasta sciù è perfetta, esente da difetti: la pasta sottilissima eppure tenace quanto basta, nessun ritorno di olio rancido, la crema goduriosa, liscissima e senza grumi. Ero stupita (qualcuno direbbe emozionata), ci ho messo qualche minuto a capire perché.

Banalmente, era un dolce fatto bene. Esente da difetti. Cosa più unica che rara da trovare nella pasticceria napoletana, dove per trovare un momento di piacere devi provare quattro sfogliatelle e tre babà, schivando i tappi industriali, il semolino crudo ed i babà bagnati con acqua e zucchero. E la situazione non è limitata, magari, ad alcuni esercizi lasciati andare dal tempo, no: il lassismo e la noncuranza nei confronti nella qualità del dolce medio napoletano è diffusa in maniera uniforme tra piccoli e grandi esercizi, offrendoci un parco di dolci mediocre, al netto di qualche eccellenza. Quali eccellenze, direte voi? Qualcuna in città; molte altre, nelle nostre amate province.

L'Inclemente: la pasticceria classica napoletana è morta?

La pasticceria napoletana non sta messa molto bene, per due motivi: il primo è il suo rapporto con la tradizione. La pasticceria napoletana non è stata in grado di trovare un percorso di riscoperta non solo complessivo, ma anche particolare.” mi dice Tommaso Esposito, il mio storico della gastronomia preferito.

Da qui, insieme al dottor Esposito, nasce una serie di considerazioni. La pasticceria classica napoletana, con la sua opulenza, le sue origini tra il Mediterraneo e la Mitteleuropa, crocevia delle culture più importanti del nostro continente, è di certo – insieme a quella siciliana – la più importante d’Italia e non c’è timore nel dirlo. Conventuale, giocosa, mistica e sensuale: ce n’è davvero per tutti, a partire dalla pastiera, dal migliaccio, babà, sfogliatelle, biscotti all’amarena, pasticciotti, raffaiuoli. E proprio dalla pasticceria siciliana si discosta, per la sua opulenza minore, per i colori meno cangianti.

La pasticceria napoletana è una pasticceria di rito: è scandita dalle ricorrenze (Pasqua, Natale, Quaresima, Carnevale), differentemente dalla pasticceria siciliana, che è onnipresente. A partire dalla colazione: se è sempre più difficile trovare una colazione di livello a Napoli, questo non succede a Palermo, dove la colazione con brioscia è diffusa più di quella con il croissant. (L’Inclemente aggiunge: il croissant medio a Napoli è fatto di cartone, quindi…)Invero, negli ultimi dieci anni, non sembra che la pasticceria napoletana abbia beneficiato di quella spinta propulsiva che invece (in qualche modo e misure differenti) ha letteralmente catturato la pizza napoletana. Il parallelismo vi potrà sembrare azzardato; non lo è affatto. Se la pizza napoletana ha beneficiato degli incontri con il mondo che la circonda, del turismo e dei suoi influssi benefici, la pasticceria napoletana sembra ridotta ad un crogiuolo di decani, che in maniera ostinata portano avanti – tra uno sgambetto ed una difficoltà – un tentativo di pasticceria napoletana fatta a mestiere. Anche volendo citare le eccellenze di Napoli città (qualcuna c’è), troviamo comunque un rapporto sproporzionato ed impari. Difficile è stato trovare dieci sfogliatelle rappresentative della città; invece, a citar dieci pizze imperdibili dello stile napoletano – tra fritte ed al forno – dopotutto si fa abbastanza presto.

Non sono accettabili le scuse di Napoli divenuta un turismificio, mi venga concesso il neologismo. Porto un esempio lampante: i pasteis de Belém, una versione del pastel de nata nel quartiere omonimo. Non saranno i cestini di pastasfoglia ripieni di crema all’uovo e spolverati di cannella più buoni di Lisbona ma sono in linea di massima ben eseguiti, simbolo di ciò che si impongono di essere: la rappresentazione sufficiente di un vessillo nazionale. Difficilissimo (ma non impossibile, sia chiaro) trovare un locale della tradizione napoletana che riesca fare altrettanto: voi vi sentite rappresentati da una sfogliatella chiusa male, con il ripieno fuoriuscito, bruciacchiata, freddissima che diventa gommosa? Quella è la tradizione da rispettare, quella in cui vi rispecchiate? Stiamo messi malino, se così è. Fatemi sapere cosa ne pensate. L’importante è che si trovi un punto in comune da cui ripartire, senza indugiare troppo; perché se si indugia nel salvare la pasticceria classica napoletana allora sì, mentre ‘o miereco storea ‘o malato more.

Top five! – Cinque notizie imperdibili, lette e commentate per voi.

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Su Thrillist, un articolo ha catturato la mia attenzione, parla della cultura del caffè americano che… sta rallentando. Mi ha colpito molto questo pezzo, dicevo, per alcuni motivi. Prima di tutto, pare che la modalità à la Starbucks (che a me, francamente, piace) stia rallentando un po’ in tutto il mondo, a favore di consumi di caffè secondo le mode del posto, entrando nei costumi del luogo. Vengono quindi citati i caffè viennesi, i modi di bere la bevanda in Turchia ed in Etiopia. L’espresso napoletano, neppure menzionato. Avevo forse ragione nel dire che allo stato attuale delle cose – cioè il caffè servito al 75% delle volte bruciato – non aveva molto senso la candidatura del rituale del caffè napoletano all’UNESCO?

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Ultimamente, sono molto interessata alle reazioni chimiche che avvengono quando un cibo o una bevanda vengono poste in determinate condizioni, allo scopo di invecchiare (si parla quindi di frollatura della carne, vini, formaggi…); sul magazine Food and Wine ci sono i risultati di alcuni vini messi ad “invecchiare” nelle profondità dell’oceano. Si parla dell’esperienza di una cantina sudamericana, in Argentina. Pare che la pressione e la temperatura oceaniche riescano ad avere grandi effetti sull’invecchiamento del vino.

Un pezzo che mi ha indotto una riflessione con qualche domanda è stato sull’Huffington Post UK, dove si parla di come sia cambiato il nostro modo di alimentarci con lo smartworking e telelavoro, suggerendo orari per una migliore assimilazione dei pasti. Al di là del pezzo, penso che sia opportuno interrogarci personalmente su come e quanto sia cambiato il nostro rapporto con il cibo durante l’anno di pandemia, lasciano scorrere liberi alcuni piccoli problemi di solito tenuti a bada. Le malattie alimentari, spesso sintomo di molto altro nella nostra psiche, hanno avuto gioco facile. E sembra, purtroppo, che anche nel nostro ambiente ristretto del food se ne parli davvero troppo poco. Possiamo e dobbiamo fare di più.

Belle le riflessioni su Eater, riguardo al come è cambiata la critica gastronomica durante quest'anno di pandemia. Sarebbe curioso anche capire cosa ne pensate voi; io la mia l'ho detta nel primo episodio dell'Inclemente: come categoria, noi addetti al settore food writing, è decisamente peggiorata. Anche il quadro della situazione fornito da Eater è decisamente sconfortante: salari ancora più ridotti e - aggiungerei io - giornalisti e food writer ancora più corruttibili, vista la povertà dilagante.

Il quinto pezzo della mia piccola rassegna di curiosità proviene dal magazine Wired e riguarda i distillati analcolici. Pare sia una “nicchia” di consumo parecchio in espansione. Mi aiutate a trovarci un senso? Cosa si prova a bere il gin senza gin?

L’assaggio

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Qualche settimana fa, su Dissapore parlavo male dei cocktail in bustina; per me i premiscelati non hanno senso. Iconaspirits, invece propone un’idea simpatica, cioè i cocktail smontati. Attraverso l’acquisto delle box (ad esempio, ho la box Negroni ed Americano, che sta 39.90 euro), vengono mandati a casa tutti gli ingredienti necessari per miscelare i vostri cocktail preferiti. Il gin, il bitter ed il vermouth che mi sono stati forniti provengono dal mondo dei distillati artigianali; è un bel modo per far conoscere diverse piccole realtà alcoliche che si mettono in gioco una box comune.

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Insomma, vale la pena provare. Niente potrà sostituire la bellezza di essere placidamente al bancone del proprio cocktail bar preferito, ma possiamo cercare di affogare il dispiacere in un cocktail, o due. Ghiaccio e pinze a portata di mano, mi raccomando. Trovate tutto il resto sullo shop online Icona Spirits.

Fonti:

Tutte le illustrazioni sono opera di The Animismus

American Coffee Culture is finally slowing Down - Thrillist

Wine Aged under the ocean - Food and Wine Magazine

The Best time to eat lunch while working from home - Huffington Post UK

How The Past year changed restaurants criticism-Eater

La curiosa moda dei distillati senza alcol - Wired ItaliaIcona Spirits - Spirits e Cockatil in box Shop

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