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Pizza Hut è fallito? Tutt'altro, sono a lavoro per creare un'azienda più solida.

Npc international, concessionario di Pizza Hut, ha richiesto l'amministrazione controllata per scongiurare procedura fallimentare

Pizza Hut è fallito? Tutt'altro, sono a lavoro per creare un'azienda più solida.

Come avevamo sottolineato nella nostra news riguardante la notizia sensazionalistica del "Fallimento di Pizza Hut", non è lo storico marchio autodefinitosi "tempio della pizza italiana" a fallire, ma molto più semplicemente, e meno drammatico del previsto, il suo maggiore licenziatario che gestisce 1.200 ristoranti ad affidarsi al Chapter 11, e cioè l'amminstrazione controllata, per scongiurare il fallimento e ristrutturare il debito.

Dalle pagine di Business Insider, Marianna Tognini approfondisce la vicenda per mettere fine una volta e per tutte ai festeggiamenti in piazza dei pizzaioli fondamentalisti, fomentati dai mujahidin del giornalismo gastronomico che vedono nelle grandi catene USA, il male assoluto:

NPC International è il maggiore licenziatario o franchisee di Pizza Hut negli Stati Uniti, che gestisce oltre 1.200 ristoranti.

NPC ha con Pizza Hut un rapporto che dura da decenni, avendo aperto il primo locale per il brand nel lontano 1962: la società è stata quotata nel 1984, dopodiché è stata oggetto di una privatizzazione nel 2001 nonché di vari passaggi di proprietà a fondi di private equity. Nel 2018 viene venduta a due family office, Delaware Holdings ed Eldridge Investment Holdings. NPC, insomma, è da tempo immemore una delle colonne portanti di Pizza Hut su suolo americano lato franchising, colonna portante che però, negli anni, si è trovata ad affrontare difficoltà crescenti dovute all’aumento dei costi del lavoro e delle materie prime, alla concorrenza e – ultimo, ma non meno importante – alla pandemia di Covid-19.

Le criticità erano note da febbraio, tanto che NPC – riporta Bloomberg – si stava già avvalendo dell’aiuto di consulenti specializzati in ristrutturazione aziendale per far fronte a un debito che ammonta a quasi un miliardo di dollari. Nel 2019, infatti, NPC era stata declassata da S&P Global Ratings e Moody’s: entrambe le agenzie di rating avevano declassato il debito della società a febbraio in seguito al mancato pagamento di interessi dovuti agli istituti di credito.

In Yum! Brands i dirigenti erano a conoscenza delle problematiche finanziarie affrontate dalla catena grazie alle recenti chiamate sugli utili: «Mentre non commentiamo voci o speculazioni o situazioni specifiche con singoli franchisee, Pizza Hut US resta in costante collaborazione con i propri franchisee in tutto il Paese, compresi coloro che affrontano dure sfide, per assicurarci il sistema di franchising più sano possibile per crescere e rafforzare il marchio». Yum! Brands, come parecchi suoi competitor, opera quasi interamente tramite franchising, e ciò sposta la maggior parte dei rischi legati alla manodopera, ai costi alimentari e alle spese di ristrutturazione agli operatori del ristorante anziché direttamente all’azienda. Ecco spiegato il malinteso che ha tratto in inganno tantissime testate italiane nel riportare la notizia: il coronavirus in un certo senso è stato il colpo di grazia dato a un franchising malandato, sebbene (paradossalmente) Pizza Hut sia stata una delle rare aziende ad aver registrato una crescita delle same-store sales ad aprile e maggio 2020, paragonate agli stessi mesi del 2019, grazie all’investimento fatto su digital e sui servizi di consegna.

Avanti veloce fino al 1’ luglio: come spiega Forbes, NPC International ha presentato richiesta per accedere alle procedure di amministrazione controllata previste dal Chapter 11 per la protezione dalla bancarotta presso il Texas Southern Bankruptcy Court. Questo significa che NPC può continuare a operare tramite la pre-negoziazione di un accordo di supporto alla ristrutturazione con i suoi finanziatori per «ridurre sostanzialmente il debito a lungo termine e rafforzare la struttura del capitale». Oltre alla riduzione del debito, il piano – va da sé – include anche la vendita di almeno una parte dei ristoranti della società.

«Ci aspettavamo la richiesta di amministrazione controllata da parte di NPC», commentano da Yum! Brands, «e la consideriamo un’opportunità per creare un futuro migliore per i ristoranti Pizza Hut gestiti da NPC. Mentre NPC affronterà su questa delicata fase, noi sosterremo il raggiungimento di un risultato che si traduca in un’organizzazione con un livello di debito più basso e più sostenibile, in un’attenzione della proprietà nei confronti dell’eccellenza operativa e in un maggiore livello di investimento nei ristoranti». In una nota pubblicata prima presentazione dell’istanza di fallimento, l’analista di Cowen Andrew Charles ha stimato che Yum! Brands potrebbe perdere fino a 54,2 milioni di dollari di entrate annue per royalty e 13 centesimi di utili annuali per azione se NPC smettesse di pagare le royalty.

In conclusione, la questione è parecchio diversa da come è stata raccontata dalla stragrande maggioranza delle testate nostrane: da Fanpage.it («Pizza Hut sull’orlo del fallimento, il colosso Usa travolto da debiti dopo la crisi coronavirus») a Il Fatto Quotidiano («Pizza Hut dichiara il fallimento: il colosso Usa del fast food travolto da debiti dopo la crisi dovuta al coronavirus»), passando per il Corriere della Sera («Pizza Hut dichiara fallimento negli Usa. Troppi i debiti dovuti al coronavirus») fino a Munchies, il canale food di Vice, che pubblica un articolo che recita «Pizza Hut è fallita ufficialmente, non solo per il Covid-19», salvo poi cancellarlo senza dare spiegazioni, come invece fa – giustamente – Dissapore («Ieri si è diffusa, incontrollata – anche da noi, chiediamo scusa ai lettori per il titolo – la notizia del fallimento di Pizza Hut […] In realtà Pizza Hut non è fallita»).

No, Pizza Hut non è fallita: dovrà rinunciare a un numero cospicuo di ristoranti negli Stati Uniti, certo, ma ciò non implica né il fallimento, né tantomeno la chiusura o la fine dell’azienda e del brand. Salvatore Grizzanti su Linkiesta fa una giusta disamina paragonando i titoli dei giornali italiani con quelli delle testate americane: «il giornalismo italiano ha problemi con l’inglese o con l’onestà intellettuale? Il problema è che bisogna sempre e solo fare titoli sensazionalistici da osteria (o da pizzeria) per acchiappare click? Oppure è semplice ignoranza rispetto il mondo del franchising per cui non si sa distinguere un franchisor da un franchisee?». Ai posteri l’ardua sentenza: qualsiasi sia la risposta, in ogni caso, denota la cattiva salute di determinato tipo di giornalismo.