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Dry January, qualche dubbio.

Un’ottima occasione per le persone di ricercare il proprio equilibrio alimentare.

Dry January, qualche dubbio.

In un recente articolo comparso su Forbes Italia si racconta nel dettaglio il fenomeno del Dry January, la sua storia e i suoi tangibili risvolti economici.

Questo mese senza alcool nato nel Regno nel 2013, grazie a una campagna lanciata da Alcohol Change Uk, associazione benefica inglese che sensibilizza le persone a un consumo più consapevole e he accende una lampadina sui numerosi problemi causati dall’abuso di alcol, è diventato infatti in breve tempo un’ottima occasione per le persone di ricercare il proprio equilibrio alimentare anche attraverso l’eliminazione dell’alcool.

Ma come il Natale in cui “siamo tutti più buoni” è in realtà la scusa per comprare regali, anche il Dry January si è tramutato in un’ottima occasione per vendere prodotti. Già, perché l’obbiettivo della maggior parte delle aziende non pare essere quello di eliminare l’alcool bensì di…sostituirlo.

Nel sopracitato articolo di Forbes c’è un paragrafo intitolato “Le conseguenze economiche del Dry January” che ci è molto utile per capire meglio:

“In termini di vendite, il mese di gennaio ha da sempre avuto davanti un segno meno per il settore degli alcolici, ma la colpa non è certo attribuibile al Dry January. E ormai certo che dopo le orge d’acquisti dicembrine, si assista a una netta riduzione delle spese a inizio anno. È però molto interessante notare il segno più che contraddistingue nello stesso periodo le vendite di bevande sostitutive. La birra analcolica, nel mese di gennaio, ha un incremento delle vendite del 37%, mentre le birre a bassa gradazione (da 0,5 a 3,5 gradi) arrivano in Inghilterra a vendere fino al 312% in più.

Ebbene sì, questo segmento pare in continua crescita, e non solo nel mese di gennaio. Si parla di una stima che si dovrebbe aggirare intorno al 400% entro il 2024, per raggiungere un valore di 500 milioni di dollari a livello globale. Per capire al meglio questo dato bisogna considerare che l’attuale quota di mercato è minima, pari allo 0,6%, e che quindi ogni spostamento porta a crescite a doppia cifra in valori percentuali.”

Ovviamente questo ha ingolosito molte aziende che hanno deciso di lanciarsi nel settore dei così detti “distillati analcolici”, che si presentano come delle alternative al Gin da usare in miscelazione, anche se ad onor del vero sono poco più di acque aromatizzate (idrolati) dal punto di vista merceologico. Tutti questi sostituti del Gin sono ovviamente per le aziende fonte di un doppio guadagno: intanto gli permettono di vendere ad un segmento di pubblico che sennò non potrebbero raggiungere (astemi , donne incinta, guidatori…) ma soprattutto riescono a massimizare il guadagno visto che su questi prodotti non c’è da pagare nessuna accisa, che invece incide fortemente sul prezzo degli alcolici.

Il problema con i distillati analcolici

La domanda puù sorgere spontanea: e perché fare polemica allora? Brave le aziende che forniscono un servizio e guadagnano soldi, tutto questo aiutando i consumatori a bere meno. Bhe, non è proprio così, o almeno non del tutto.

Il primo problema riguarda proprio quello che quasi tutte le aziende comunicano: questi prodotti sono sani, fanno bene, sono naturali. Molti di loro pubblicano scritte come “zero zuccheri” o “senza coloranti”. Ma quello che tutti i prodotti stanno ben attenti a non dire è che sono pieni di conservanti.In effetti non ci vuole molto ad arrivare alla conclusione che un analcolico tenuto per 6 mesi in una bottigliera a temperatura ambiente dovrebbe tendere a diventare una piccola palude in bottiglia, pullulante di vita come un brodo primordiale. E invece no, se ne resta placido e limpido nella sua trasparenza eterna grazie a dosi di conservanti importanti. La tematica è stata sollevata nel numero dello scorso luglio di Gambero Rosso in un approfondimento dedicato i cui si scrive:

“per legge su tutte le bottiglie, visto che come per tutti gli altri prodotti analcolici, anche in questo caso c’è l’obbligo di indicare gli ingredienti sulla retro. Di fondo il problema alla base è quello della conservazione in assenza di alcool, soprattutto perché in linea di massima sono prodotti pensati per andare in sostituzione degli alcolici anche nelle modalità di stoccaggio nel bar, ovvero in bottigliera a temperatura ambiente. L’unico modo per garantire a questi prodotti una vita di 6 mesi dopo l’apertura è quindi l’impiego di conservanti. Facendo un veloce giro delle etichette troviamo dunque l’utilizzo di E202, ovvero sorbato di potassio, noto come antifermentativo, e più sporadicamente E242, ovvero dimetildicarbonato. Questi prodotti sono comunemente utilizzati all’interno dell’industria alimentare, ma sembrano stonare in riferimento a bottiglie che giocano tutta la loro comunicazione sul salutismo e la trasparenza, con frasi ad effetto come “senza coloranti, senza zuccheri, vegan”. Inoltre per sommo paradosso, l’utilizzo di E242 in acqua porta come conseguenza la creazione di metanolo esogeno, ovvero alcool, rendendo prodotti di questo genere non idonei a chi non beve alcool per scelte etiche.”

Il problema del nome

Nonostante il tuo amico barman li chiama così, per legge questi prodotti non si possono chiamare “Gin Analcolici”. Il motivo è molto chiaro e risiede nel Regolamento UE 2019/787 sulle bevande spiritose. Qui, nella sezione dedicata al Gin troviamo la dizione che segue:

Il gin è la bevanda spiritosa al ginepro ottenuta mediante aromatizzazione con bacche di ginepro (Juniperus communis L.) di alcole etilico di origine agricola. …

b) Il titolo alcolometrico volumico minimo del gin è di 37,5 % vol.

Sotto i 37,5 gradi dunque il nome gin non lo si può usare, nemmeno con suffissi come analcolico. Ma (viva l’Italia) fatta la legge trovato l’inganno. Nulla impedisce di utilizzare parole composite che contengano la sequenza di tre lettere sopracitata in un nome. La soluzione più gettonata pare essere quella che comprende la parola virGIN in tutte le sue declinazioni, ma c’è anche chi con più fantasia punta su nome propri o inserisce gradi di temperatura al posto di quelli alcolici.

Insomma, Dry January si, ma non è tutto oro ciò che luccica. Se lo facciamo veramente per la nostra salute, forse è meglio una centrifuga di spinaci fatta in casa.

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