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Al ristorante come a Chernobyl? No, grazie.

Riflessioni e bilanci sulle riaperture dei ristoranti in Italia

Al ristorante come a Chernobyl? No, grazie.

"Ciò che in questo momento non fa bene al mondo della ristorazione è cercare a tutti i costi una riapertura senza riuscire a leggere correttamente i messaggi della scienza e degli studiosi da un lato, e i segnali che arrivano dalla gente dall’altro", Marianna Tognini di RollingStones.it manifesta, nel suo articolo, tutta la perplessità che avvolge lei e gran parte della popolazione italiana, alle prese con una prudente ritrovata libertà, dopo i mesi difficili del lockdown, sul ritorno al ristorante e la nebulosa serie di restrizioni e obblighi da rispettare per poter godere pienamente di un'esperienza ristorativa post pandemia.

Fa riferimento a un articolo del 18 maggio a cura del celebre critico gastronomico del Corriere della Sera, Valerio Visintin, che elenca i passaggi più confusi dell'Ordinanza Regionale Lombardia: "l’obbligo di dare al ristoratore il nominativo di chi ha riservato il tavolo (e degli eventuali accompagnatori no? E se uno dà un nome fittizio?); il distanziamento interpersonale di almeno un metro, salvo i casi di accompagnamento di minori di sei anni o di persone non autosufficienti (quindi se vado a cena col mio fidanzato dobbiamo stare comunque a distanza? Che senso ha, dato che viviamo insieme? In più, come si deve misurare questo metro, considerando che per mangiare ci si sporge in avanti di almeno una quindicina di centimetri?); l’assenza di disposizioni a carico della cucina e del personale che vi lavora (devono indossare mascherine e guanti? Devono essere sottoposti a test sierologici o tamponi? Uno chef è autorizzato ad assaggiare il cibo che prepara?). Un protocollo che pare redatto un po’ approssimativamente, insomma, considerato che fino all’altro ieri non potevamo manco uscire di casa per vedere un amico: ora invece siamo autorizzati non solo a correre in pizzeria, ma pure a utilizzare i servizi igienici della pizzeria, che – sempre stando all’Ordinanza – «dovranno essere puliti più volte al giorno» (non c’è dato sapere quante, o quanti clienti alla volta possano accedervi)."

L'autrice di RollingStones.it riflette sullo stato d'animo e il sentimento popolare nell'affrontare la nuova modalità di stare al ristorante, e non ha molta positività al riguardo. "I segnali sono che sì, la gente desidera uscire, ma lo vuole fare in contesti sicuri e capaci di non metterla a disagio. E qui arriviamo alle perplessità di natura soggettiva: quanta voglia ho di andare al ristorante, di trovare un tizio all’ingresso che mi misura la temperatura, d’essere accompagnata al tavolo e di venire servita da un altro tizio con indosso una mascherina, di subire strane disposizioni di tavoli e sedie per osservare il fantomatico metro di distanza, di mangiare con la mascherina abbassata e di doverla rimettere non appena mi alzo per andare, ipotizzo, in bagno o fuori dal locale per rispondere al telefono? Non so, l’impressione è che forse mi sentirei come se fossi in una Chernobyl denuclearizzata dove il pericolo radiazioni non è stato ancora completamente debellato, e il piacere di uscire fuori a cena verrebbe spazzato via da un’atmosfera post-apocalittica a tratti inquietante."

Conclude il suo pezzo con riflessioni di natura economica. "La mia ultima, ma non meno importante perplessità ha a che vedere con una questione meramente economica. Prima della pandemia, vuoi per lavoro, vuoi per piacere, andavo a cena fuori in media tre-quattro volte alla settimana, e a Milano, a meno di non optare per il cinese (non in versione gourmet), spendere meno di 40/50 euro a testa – vino incluso – è ormai impossibile. Costretta a casa per due mesi e sperimentando una varietà di piatti e ricette a cui non ero abituata, ho toccato ancor più con mano il delta di prezzo tra mangiare fuori e mangiare a casa che già prima conoscevo, certo, ma che adesso, in alcuni casi, percepisco come un puro e semplice raggiro. Se a ciò devo aggiungere il fatto di cenare in una specie di scenario post-atomico, mi è davvero difficile giustificare quella spesa di 40/50 euro a testa, perché manco riuscirei ad apprezzare il menu a dovere. Mi sento una merda? Chiaro, in parte sì: scrivo anche di cibo e per me andare al ristorante – oltre che un piacere – è un dovere, senza contare i tanti amici che ho che posseggono locali ormai divenuti una seconda casa. Se tutti la dovessero pensare come me, ovvio che il settore sarebbe destinato al collasso, e nessuno se lo augura. Non c’è polemica nei confronti di chi ha deciso d’aprire, non c’è polemica nei confronti di chi ha deciso di posticipare, non c’è polemica nei confronti di chi ha deciso di concedersi un pasto fuori e non c’è polemica nei confronti di chi ha deciso di non farlo. Innegabilmente c’è stata – e c’è tuttora – tanta, troppa fretta, che ha portato a provvedimenti raffazzonati e pasticcioni: in un mondo ideale, avrei preferito che si fosse aspettato almeno fino al primo giugno con la sicurezza di un sostegno economico per l’intero comparto, in modo da studiare soluzioni più percorribili, meno sbrigative e che non lasciassero spazio a malintesi."