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Chi era Carmine ‘E Curti? Ce lo racconta un articolo del 1994 di Nino Leone

Chi era Carmine ‘E Curti? Ce lo racconta un articolo del 1994 di Nino Leone

Chi era Carmine ‘E Curti? Ce lo racconta un articolo del 1994 di Nino Leone
Nino Leone, medico e scrittore.
È l'autore di numerosi libri fra cui La vita quotidiana a Napoli al Tempo di Masaniello, un grandissimo successo editoriale con Rizzoli prima e ora con Polidoro.
Ci regala questo articolo del 1994 da leggere in tutta calma, in cui scopriamo l’uomo Carmine D’Alessandro, patron del ristorante ’E Curti e papà del nucillo che porta il nome del ristorante, scomparso ieri.
E’ un piacere avere ancora Nino come nostro ospite speciale dopo il prezioso intervento sul migliaccio.
(foto copertina di Scatti di Gusto)
Chi era Carmine ‘E Curti? Ce lo racconta un articolo del 1994 di Nino Leone

di Nino Leone

“L’anno di stesura di questo testo risale al periodo natalizio del 1994 e fu pubblicato da "NORD E SUD”, la rivista di Chinchino Compagna. Racconta una sera a cena tra scrittori di vario livello e caratura. Vi compaiano i compianti Michele Prisco e Pellegrino Sarno, cui va l’affettuoso ricordo, Peppe Tortora, ora programmatore alla Rai di un seguitissimo programma serale, Carmen Clemente, mia moglie e io che redigo lo scritto.

A quel budello rinserrato dentro il quartiere di Sant’Antonio, a Sant’Anastasia, perennemente in terremoto e anfratto di ricetti medievali già nel nome S. Biagio e Ponte, è stata da poco asportata la lapide un tempo apposta di fronte alla locanda frequentata da noialtri intellettuali. Ci accoglie il familiare presepe, con la stessa luce di come lo conosciamo da molte stagioni. È sempre faticoso arrivarci e tragico trovare posto all’auto: viene sempre voglia di ripiegarla e metterla in tasca, pur di disfarsene.

Entrando però in quella che fu La cantina dei Nani - quella della gioventù di mio zio Nicola, senza il quale non si apriva taverna -, solo allora ci si rende veramente conto quanto poco sia rimasto di un quartiere, di accattivanti architetture saperi e mestieri, di un paio di secoli e parte di questo Novecento. Carcerati nelle preziose e sempre eleganti modanature liberty miste alla pietra vesuviana dei portali, non resta che questa osteria.

Oggi è detta É Curti, ma il posto una volta, olio su vetro con smacchiatura a mano e in corsivo, ostentava la scritta: Ô Monaco . Un contronome popolare, dettato dalla premurosa devozione della famiglia di cantinieri al convento dei Frati Antoniani situato appena dietro il vicolo. Per anni, abbiamo indifferentemente continuato a chiamare il posto, Add’ê Nani, senza saperne altro, rimanendo tuttavia l’unico all’altezza di quanti nomi gli volessero affibbiare. Oggi sui piatti è scritto É Curti, come a unificare le molte denominazioni o un regno di più regioni, giunti a tradizioni da Grand Hotel. Invece è solo di una cantina, riattata con una parete di mattoni di argilla sul fondo, su cui vagano pendants di rame da casa popolare che potrebbero simulare un’opera di moderni simbolisti, senza dovuta risonanza.

Carmine, l’attuale proprietario, mingherlino, occhi da elfo beffardo, marito della nipote carnale dei due antichi gestori nani, ci aspetta sulla porta: abbiamo debitamente prenotato. Non c’è gente all’interno e l’aria è gelida, e risente anche dell’umido delle ultime piogge. Michele Prisco chiede dei riscaldamenti. Crede di essere ancora a Milano da dove è rientrato alle 12 e 30.

Carmine fa spallucce e gonfia le gote, ma non rilascia dichiarazioni. Passa buona parte della giornata a sbuffare: credo che gran parte della vita l’abbia sublimata in questo gesto, che gli riconosco antico, ma falsamente umile e disarmante, come a dire: «Contentatevi. Siamo già vivi per miracolo e questo offriamo!». Teme esigenze o richieste eccessive, che io so che non ama. Ha preparato per noi un tavolo troppo grande: preferiamo l’altro, pronto per sei. Entrambi hanno la tovaglia rosa, e così i tovaglioli, ben sistemati al centro del piatto. Io sto seduto di fronte a Michele;a fianco gli siede Pellegrino Sarno. Carmen sta alla mia sinistra e siamo quattro. Peppe Tortora arriva in ritardo e si siede a capotavola. Festeggiamo il suo primo sceneggiato in radio: I giorni del ‘99.

Carmine sbuffa: ha qualche disappunto. Sono le nove di sera e siamo i soli avventori: benché ospiti di un certo riguardo, è davvero poco. Michele Prisco, constatato il gelo della serata, dice: «Mi ha un po’ deluso…». Va spiegato l’antefatto. Più di una volta, arrivati qui e con grande rammarico abbiamo trovato già occupato: la capienza è limitata, ma stasera l’angelo delle osterie si è vendicato riservandoci l’intero locale. Carmine non credo capisca bene l’impatto della neocomitiva, e mi tiene addosso, come incollati, gli occhi da elfo sospettoso. Ha mestiere però, e sa come non perdersi d’animo. Gattescamente, mi affibbia d’emblée un assaggio del suo vino: sa che sono talebano. Porta un rosso, un taurasi, a primo urto: non è niente male, molto meglio di certi suoi bianchi di non eccelsa confidenza. È guardingo mentre lo assaggio ma non sbuffa: è sicuro del responso e resta come assorto per la conferma.

Va bene, gli dico, e lui, senza altre reazioni, se ne torna in cucina; come uno gnomo misterioso,si oscura ripetutamente dentro il suo bosco di agli, pomodori a pendolo e catalanesca di zia Assunta e della moglie Angela. Com’è diverso da certi osti di Milano, invadenti, prosaici, che a forza vogliono che ingolli il loro risotto di brodo di pollo che non hai voglia di assaggiare dopo dieci ore di guida; penso a un ristorante preciso, L’Assassino di breriana memoria!

A sorpresa arriva l’antipasto: mozzarella e prosciutto. La prima è un po’ sfatta, ma d’inverno, bisognerebbe saperlo, è da barbari mangiare una mozzarella non senza passata per il caldo. Col freddo, il latte si addensa e la caseina si stira in un caglio nippoloso costringendo la pasta a spellarsi come un corpo disfatto. Sul secondo, non ho niente da dire: è il solito San Daniele, tagliato un po’spesso e gradevolissimo da solo. Mentre pilucchiamo, Carmine si siede con le spalle alla sua piattaia di noce: è la regina della parete, l’unica seria interprete del fondo. Mi ricorda le commedie e certe precise scenografie di Eduardo al San Ferdinando. Da personaggio pirandelliano ci studia, senza sapere se avvicinarsi o no; per lui siamo ospiti infidi, difettosi, se potesse dircelo in faccia, come quando siamo soli.

Si mangia e si parla. Michele racconta della nostra fermata a Montefusco nell’avellinese, presso una sua cugina: Pellegrino lo interrompe subito: «Sei stato a Montefusco? Lì, sono di casa. Mi ci mandava mio padre, per la salute un po’ cagionevole». Si finisce per parlare del suo paese San Giorgio del Sannio, della ricostruzione posterremoto. Si lamenta della omologazione, del disegno, dell’aspetto svedese imposto e vagheggia del vecchio borgo e della sagacia italiana necessaria, molto più di un pur avveduto geometra, per ricostruire tutto quello che c’era da ricostruire.

Racconta del barone locale che elegantissimo usciva dall’originale palazzo dei Serra di Cassano al centro della piazza. «Che spettacolo vederlo apparire – commenta - appoggiarsi al bastone, alzare la bombetta davanti a chicchessia. I ragazzi gli andavano incontro affabili e maliziosi gridando in coro, Buongiorno! Lui, con scatto elegante, si arrestava, sollevava il cappello e ricambiava,. Poi riprendeva a passeggiare. Intanto i ragazzi, che pure lì nascevano figli di mappina, avevano già aggirato l’isolato per scontrarlo più avanti. Di nuovo, Buongiorno, scatto elegante del blasonato e nuova corsa per quattro cinque volte ancora».

Finiamo alle mancanze - alla La Capria -, ai sogni non raggiunti, alla modernità che ci è sfuggita e approdiamo ai luoghi comuni della identità, dalle cui paludi ci pensa Carmine a toglierci col suo primo di linguine e chiodini di pioppo: un piatto che definire delizioso è almeno insufficiente. Carmine svogliatamente ci consiglia di aggiungervi formaggio: noi, scettici, desistiamo. Pellegrino esulta di nuovo: «Dovete assaggiarlo col formaggio: è tutt’altra cosa!». Così è. Bisognerebbe obbligare gli osti a obbligare i clienti a mangiare in certo modo, obbligarli a non scegliere, a volte.Ci versiamo su un buon bicchiere e un altro, e un altro ancora; si consumano diverse bottiglie. Cresce l’aria da convegno di letterati affamati di «buone e belle cose» che Carmine non ci fa desiderare oltre. Porta un agnello di cui giura e rigiura, facendo addirittura pubblico atto di fede, che è lattante; quasi quasi, è andato lui a scannarlo. Dice sempre così quando è sicuro di fare bella figura. Conosco la rappresentazione e mi diverte riprovarla: una in più non mi farà male. L’ovinculo è stato cotto al forno con un leggero contorno di piselli e patate: il tutto aspetta di essere divorato coll’immancabile piacere. La pietanza chiede vino e l’elfo della cantina non ce lo fa mancare. Porta ancora una bottiglia.

Michele si impensierisce: «Stasera stiamo bevendo un po’ troppo...». È un vino amico che riscalda il cuore e suggella il piacere di ritrovarci. A Peppe brillano gli occhi come a un insorto della Repubblica partenopea e Carmen mangia e dialoga di Thomas Mann che è un piacere.Pellegrino è sereno e disteso, invece del burbero e brontolone che solitamente appare, ma è parte della commedia che tutti interpretiamo.

Passano tra vino e una fetta di migliaccio Borges Cecov Gadda Sinisgalli, del quale Michele si meraviglia dell’entusiasmo di Peppe, e Alfonso Gatto, quello dell’osteria flegrea, il poeta, come noi, uomo di cantine, al quale va idealmente la serata. La tocchiamo con mano, la sua atmosfera da angurie spaccate sulle tovaglie bianche, del suo verso super limato, fintamente cafone. Con la delicatezza da galantuomo pietoso, Michele accenna al velo da stendere sulla urlata opposizione del poeta alla propria vittoria dello Strega 1967, quando si rifiutò di stringergli la mano gridando davanti all’intero Ninfeo: «È una vergogna!». Preferisce pietare invece sulla sua prematura scomparsa. Pellegrino disvela la banalità della morte: «Un banalissimo incidente d’auto, mentre dava lezioni di guida a una sua amica», e calca l’accento, «per insegnarle a guidare. Una sbandata, niente più che una sbandata: una stronzissima uscita di strada!».

E c’entra anche Calvino. Michele è perentorio: «Calvino è un buon letterato, ma come narratore non vale quello che si dice. D’altronde lo si è visto con questo ultimo testo: “I libri degli altri”». «Uscito postumo, però!» gli obietto. Lo accusa di essere stato un letterato fideistico, strumento di ragioni ideologiche difficili da comprendere, ancora ad anni di distanza.

E siamo al limoncello. Carmine ce lo serve rigorosamente freddo, dopo che si era esibito in tutta la sua bonaria agrezza sul mistero di una mela annurca, chiamata Sergente, varietà più legnosa di un albicocco di venti anni. Michele poco prima aveva chiesto un fico d’india - è una vita che glielo sento chiedere: una notte di primo autunno, alle due passate, nell’unico ristorante aperto in tutta Napoli, aveva avuto il candore di chiedere per frutta, un fico d’india -. Carmine gli oppone subito la sua e dice che di questi tempi le figurine sono farinose, smaturate. Credo si sia capito, il personaggio non prevede le mezze misure. E va bene così. Intanto inventa una genialità che gli può uscire solo dall’essere l’elfo vesuviano che è, inconsapevole delle altrui, che non siano la pietra e la rena nera della Montagna, il rosso dei pomodori col pizzo e l’oro della catalanesca.

Parla ancora di fichi d’india..., ma è come se si allontanasse, dicendo flebilmente che se ne potrebbero trovare... forse su, alle Catrocchie. Sbarro gli occhi al nome, il dittongo associate alle doppie accende la fantasia dello scrittore... "scendevano per le Catrocchie con passi sonori e come catturati da un divino silenzio..." e faccio notare l’eufonia della parola. Carmine è di tutt’altro avviso e ribadisce: «Sì, le Catrocchie. Così si chiamano... » e sbuffa mentre io mi rifiuto di spiegargli il film che giro nella mia testa.

Il limoncello va e viene più volte. Si parla di Rea: Mimì è come Giove alla tavola dei commensali; è sempre presente in anima e corporalità. C’è sempre un piatto per lui. Pellegrino racconta di un episodio accaduto alle cinque del mattino a New York per inseguire un film porno del cui esito Mimì lamentava la propria completa disfatta. E di una telefonata nel cuore della notte a proposito di una frase della sua Ninfa plebea.

«Che dici, scrivo così o no?». Pellegrino tenta di dribblare: «Sì... mah, forse...». «Va beh, faccio io!». Si trattava della pagina 107 del romanzo nell’edizione Mondadori.

Michele è ilare e soddisfatto; è finalmente felice della serata. L’entusiasmo pervade un po’ tutti. Torniamo e ritorniamo a quel «mare che ancora non ci bagna», che più andiamo avanti e più appare come l’antro di un orco in cui sarà molto difficile entrare. Carmine ci guarda sottecchi, la sua giornata, se non fossimo noi, sarebbe finita da un pezzo.

Non è semplice, viverla tutta, un giornata da gnomo”

Nino Leone, medico e scrittore

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