Gugliemo Vuolo: "Zì Enrì, potreste prendere mio figlio a lavorare? Ed è cosi che ci si ritrovava al banco. Prima si diventava pizzaioli per imparare un mestiere"
Guglielmo Vuolo tra AVPN, Gambero Rosso e la sua Carta dei pomodori: storia e semplicità.
“I pomodori li sogno anche di notte. Io penso che se andassi a fare le analisi preleverebbero pomodoro piuttosto che sangue.", questa è stata la prima cosa che Guglielmo Vuolo mi ha detto, quasi prima ancora di presentarci.
Vuolo non è “semplicemente” un maestro pizzaiolo, Guglielmo è la storia della pizza, lui è La Pizza.
Quarta generazione di pizzaiolo in famiglia, Guglielmo Vuolo è custode della veracità di un uomo d’altri tempi, di un pizzaiolo di altra scuola, di un portatore sano di quella napoletanità che “se è quella vera piace in tutto il mondo!”
Guglielmo Vuolo (classe 1960) è un pizzaiolo che può vantare d’essere pronipote, nipote, figlio e padre di pizzaioli e nonostante ciò non ama sentirsi chiamare maestro, non ama mettersi al centro dell’occhio di bue per cavalcare l’onda (anomala) che ha reso i pizzaioli dei veri e propri vip.
“Sono il classico tipo al quale non piace mettersi sotto i riflettori né mi faccio trascinare nel farlo, io sono ancora dello stampo che i fatti miei è sempre meglio non si sappiano nonostante siano cose belle. Ho girato il mondo, ho portato e insegnato il mestiere del fare la pizza a tanti eppure questo non mi fa sentire una star. Come si dice: ecce homo, io questo sono e credo di aver semplicemente fatto ciò che so fare, perché -e scusatemi tanto- sono 52 anni che metto tutto me stesso in questo lavoro che ho trasformato in qualcosa che è molto di più della mia vita, in quanto fa parte del mio essere.”
E infatti Guglielmo Vuolo vanta centinaia di collaborazioni dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Finlandia a Taiwan, dalla Grecia all’Inghilterra e la Francia. E non solo: Guglielmo è insegnante presso l’AVPN (Associazione Verace Pizza Napoletana) ed ha tenuto anche corsi in collaborazione con il Gambero Rosso. Tutto ciò resta comunque solo una parte della sua esistenza dedita alla pizza.
“Era bellissimo quando finiva la scuola e potevo stare con babbo, nel locale di famiglia, a imparare da lui. Era anche un modo per trascorrere più tempo con papà, alla fine. Una volta fare il pizzaiolo non significava fare turni o seguire corsi, piuttosto era un dedicarsi interamente a fare più di quello che si poteva: mi ricordo che mio padre si riposava un po’ il pomeriggio, su una sedia ma mai lasciava il locale. Fare il pizzaiolo significava imparare un mestiere e farlo proprio, per cui si doveva mettere in moto la testa, aguzzare l’ingegno e trovare soluzioni a tutti i possibili (e impossibili) imprevisti.”
Vuolo ha iniziato ad 8 anni a stare al banco, anche se quasi per gioco. In seguito la cosa ha iniziato a diventare sempre più “seria” perché man mano papà Enrico dava a Guglielmo dei compiti e mai gli ha riservato un trattamento di favore: “ero esattamente come tutti gli altri: dovevo fare le pulizie, dovevo fare le commissioni e dovevo anche farmi la pizza al momento della chiusura se volevo cenare!”
E quando hai avuto il banco tutto per te per la prima volta?
“Me lo ricordo benissimo! Mio padre era stato invitato ad un matrimonio e mi disse di sbrigarmela da solo perché ne sarei stato capace e in ogni caso lui sarebbe arrivato ‘dopo’. Si presentò alle 11 di sera, intanto io ce l’avevo fatta!”
Che rapporto aveva tuo padre con la pizza?
Mio padre faceva colazione con la pizza. Ed io con lui, nonostante mia madre ci bacchettasse entrambi.
Ma la cosa curiosa è che mio padre non mangiava il pomodoro. Anzi, per dirla con precisione, non gli piacevano i semi del pomodoro, per cui lui faceva questa pizza bianca e la portava a casa. In pratica a colazione io mangiavo la pizza della sera precedente che veniva coperta con un piatto.
Francè, nun hai idea di quanto era sapurita quella pizza! Sarà per il ricordo che ne ho, sarà il gioco delle emozioni ma io faccio la pizza oggi e la facevo 40 anni fa, eppure non è la stessa cosa. Non so se sia perché ho cambiato qualcosa e non me ne sono accorto o perché ritrovo un gusto anche dell’anima in quel momento ma sta di fatto che era un’altra cosa! Penso che la memoria del palato esista e molto di ciò che ci piace è legato al momento in cui abbiamo fatto certe cose. Io ero felice di stare con mio padre, mio padre e la sua pizza.”
Sono cambiate di certo le materie prime
“Eh beh sì, quello sicuramente. È sottointeso. È impossibile trovare la materia prima di allora, quando si coltivava con i pozzi neri perché non c’era disponibilità economica per i concimi, quindi i processi non venivano falsati, accelerati e le coltivazioni seguivano il flusso e i tempi naturali.”
E invece che cosa è cambiato nell’approccio alla pizza?
“Quello che può aver cambiato il modo di fare pizza è sicuramente l’idea del pizzaiolo. Io ricordo che molte mamme venivano al locale e chiedevano a mio padre “zì Enrì, potreste prendere mio figlio a lavorare?” ed erano donne che in qualche modo volevano tenere al sicuro i loro figli e al contempo facevano in modo che imparassero un mestiere. Spesso capitava che si proponevano di pagare loro stesse la settimana al ragazzo, pur di assicurarsi che non stessero per strada e che imparassero il senso del lavoro e dei soldi. Ricordiamoci che prima i figli consegnavano la paga settimanale alla famiglia, bisognava collaborare in ogni modo perché le situazioni economiche non erano favorevoli.
Napoli ha sempre ragionato in modo da ingegnarsi per riuscire a sbarcare il lunario. Abbiamo sempre dovuto imparare a reiventarci e adattarci. Una volta la figura del pizzaiolo non aveva tutto il carisma che ha oggi, era un mestiere da artigiano e quasi si esitava a dire “faccio il pizzaiolo” soprattutto alla ragazzina su cui si provava a fare colpo e lo posso dire perché l’ho vissuto in prima persona.
La differenza sostanziale, secondo me, è che prima si diventava pizzaioli perché si imparava un mestiere, mentre oggi c’è uno studio complesso e contorto dietro la creazione di una cosa semplicissima.”
Quindi tu non hai mai studiato impasti, idratazione e tutto quanto concerne la pizza?
“Io ho preso un diploma in tutt’altri studi, in realtà, perché mio padre non avrebbe mai permesso che non arrivassi a questo traguardo. Nonostante lavorassi al banco da quando avevo 12 anni, la cosa fondamentale in famiglia era avere una preparazione.
Nel 2007 la AVPN mi chiese di fare un lavoro con il mulino 5 Stagioni e sono stato con un loro tecnico Nicola Demo, che ancora oggi ritengo sia tra i migliori in circolo. “Il sale si mangia il lievito” era sempre stata la risposta di mio padre quando chiedevo come mai non potessi mettere il sale con il lievito, con Nicola ho scoperto il perché scientifico, la reazione chimica che avviene ed ho capito il perché di tante cose che alla fine già facevo ma in modo naturale, meccanicamente, perché l’esperienza mi aveva portato a farle giuste. Sapere, scoprire, imparare e capire è stato qualcosa di emozionate e formante, ancora di più perché già da adulto e già da affermato nel mio mestiere. È stata una esperienza che mi ha dato e mi ha fatto capire tanto ma sono ancora riluttante allo studio perché sono sempre convinto si debba imparare bene prima il mestiere. Sicuramente fare ora le stesse cose scoprendo e conoscendo cosa c’è dietro una cosa così semplice mi ha dato una emozione che non dimenticherò per tutta la vita.”
La tua pizza risente di tutta questa esperienza e benchè ti sia affacciato sempre alla novità ed abbia testato tutto, a volte anche essendo il primo, riesci a conservare un sapore, un profumo e un tocco che sa di storia. Come fai?
La pizza è due cose: impasto e cottura, il resto è farcitura e quello che metti, quello ci trovi.
La figura del fornaio è stata messa da parte in favore di quella del pizzaiolo, tutti vogliono stare al banco ed in prima linea oggi ma è il fornaio che si occuperà della cottura e quindi di rendere davvero buono quell’impasto a cui lavoriamo; è il fornaio a ultimare il capolavoro e se la cottura non è perfetta, non si apprezzerà nemmeno il lavoro fatto sull’impasto.
L’equilibrio è un fattore fondamentale nella pizza, tutto deve combaciare e incastrarsi: io ho sempre iniziato dall’acqua e non dalla farina, ho sempre usato il lievito più opportuno per tipologia e quantità, anche a seconda della stagione. Una volta esistevano davvero i cambi di stagione e man mano che arrivava il caldo si scendeva con le quantità di lievito e magari si preferiva il lievito di birra perché più stabile, più controllabile.
La biga, ad esempio, io la conoscevo già perché da piccolo capitava che babbo mi mandasse a chiedere del lievito al panificio vicino, dato che poteva capitare finisse; loro mi davano questo pezzo di impasto duro, questo agglomerato di farina davanti che al mio chiedere come mai non fosse il classico lievito di birra loro rispondevano “stai tranquillo che tuo padre sa come deve fare”. Quindi per me la biga la usavano i panettieri. Per me e per la mia esperienza io devo continuare a fare acqua, farina, sale e lievito: che poi sia lievito madre (anche se non lo uso spesso) o sia criscito (che poi è quello che di più utilizzo) o un lievito di birra o uno più fresco. Poi dipende anche dal periodo: in estate il lievito fresco può creare difficoltà, ma come sempre e come in tutto basta fare ricerca e si trovano dei buoni lieviti di birra.
E tornando all’importanza dei fornai, cosa pensi dello spazio che il forno elettrico si sta conquistando?
Ti racconto una cosa: Eccellenze Campane doveva essere presente a Casa Italia, ai mondiali in Brasile, e non era possibile fare in altro modo se non mettere il forno elettrico; io lessi del progetto di Izzo e andai da lui a fare un po’ di prove, poi lo tenni per un intero giorno da me ad Eccellenze Campane, molto prima di Formamentis o del Louvre in Francia. In un giorno feci quasi 500 pizze e posso dire che se non si fosse visto fisicamente il forno, probabilmente nessuno avrebbe capito, nessuno avrebbe notato la differenza.
Una volta mi chiesero di far capire esattamente e con precisione le differenze tra elettrico e non: io feci uscire le prime 6 o 7 pizze tutte dall’elettrico mentre a tavola si scervellavano a capire quali fossero state cotte in elettrico e quali nel mio usuale forno. Feci la brace e la misi nei 4 angoli così da far sentire l’odore e confondere ma senza che intaccasse il mio impasto. Io credo che per uno come me che ha imparato il mestiere -davvero e sulla propria pelle- prima di studiare, partendo dall’acqua e non dalla farina, sia ovvio aver sviluppato uno spirito di adattamento: il clima, l’imprevisto, una mancanza improvvisa sono stati la vera scuola per me. Capitava a volte, tanti anni fa, che l’impasto non crescesse e si doveva trovare un sistema per avere sempre il risultato. Sai cosa facevamo noi? Mettevamo impasto buono intorno in modo che il cornicione potesse crescere. Tutto ciò che può sembrare una genialata oggi, in realtà è tutto frutto della risposta agli imprevisti. Tutt’ora io non utilizzo facilmente i frigoriferi.
Mi viene da dire che la tua formazione ti è rimasta talmente dentro che era il minimo dedicarti ai pomodori dopo quel dettaglio di tuo padre che non li mangiava, forse era quasi scritto nel tuo destino fin da lì. Come nasce lo studio della carta del pomodoro?
“Dimmi una cosa: ‘A pizza senza ‘a pummarola, che cos’è? Per questo mi sono dedicato al pomodoro nei miei studi e nelle mie ricerche. Ci sono pomodori che si dicono dimenticati ma non è vero, non è questa la spiegazione piuttosto è che all’epoca i coltivatori non avevano resa economica in quei raccolti per cui non li piantavano una seconda o una terza volta. Magari piantavano altro che gli rendesse di più.
Io stesso sono andato a raccogliermi lo scarpariello o anche lo scarpariello iodato, che addentrando le sue radici più in profondità prende questo sapore di mare; fin dagli anni 70 ho personalmente selezionato i san marzano; i primi corbarino da Carlo D’Amato li ho comprati io per Eccellenze Campane e con lui abbiamo fatto i pomodori in acqua di mare (il corbarino e il piennolo); con Montoro ho cercato i campi più belli di Sarno e non hai idea della mia meraviglia a scovare questi terreni magnifici attraversati da fiumiciattoli limpidi e poetici; a Tramonti c’è il Re Fiascone, il cui nome deriva dal Re Umberto che si racconta fosse molto avvezzo al bere e da qui ‘Re Fiascone’; abbiamo lavorato il pomodoro verneteca sannita che è un pomodoro un po' antipatico ma di una dolcezza indimenticabile; mi sono dedicato al datterino giallo appassionandomi alla leggenda secondo la quale apparve nel giardino di Giulia. Il frutto di tutto questo, di tutta questa passione è stata la creazione della carta dei pomodori ma anche una pizza ben precisa ovvero la mia “Quattro pomodori”, pizza con 4 tipologie di pomodoro.”
In Foto " Assoluto di Marinara"
È solo una delle tue pizze, ma la cosa che mi ha colpito di più è stata una tua frase in cui dicevi che le tue pizze sono tutte differenti.
“Certo! La pizza è sempre differente e se le facessi tutte uguali sarei un robot e onestamente preferisco essere un pizzaiolo.
Saresti in grado di imparare qualcosa se prima non sbagliassi? Io lo faccio da 52 anni e già ho dato con i miei errori. Oggi invece con lo studio è impossibile sbagliare. Fare la pizza è diventato eseguire freddamente una ricetta, senza stimolare la mente, senza ingegnarsi. Prima si impara a mettere insieme le cose, le basi. Se non la ‘senti’ una cosa non puoi riuscire in quella stessa. Il cornicione, ad esempio, è stato sempre nella velocità: oggi stendo un panetto in 14 secondi, ma ti assicuro che quando ero veramente nel pieno lo facevo in 9 secondi. Io lavoro ancora con un pizzaiolo e un fornaio. Quando ero giovane avevamo una pala steccata del diametro delle pizzette da vetrina: infornavamo in un 120 di diametro anche 16-17 pizzette ma con una rapidità e una manualità non indifferente. E non era una cosa speciale, era la normalità.
Tutto questo per dire che io non sono il pizzaiolo eletto, sono uno che da bravo artigiano ha appreso il mestiere sul campo, con la pratica, con la storica caratteristica di noi napoletani di essere pratici ma attenti.”
Tu ora sei a Verona; esiste più una differenza tra nord e sud nell’idea di pizza?
Io mi trovo in Veneto per una storia curiosa. Avrei dovuto già avviare un progetto qualche anno fa ma, per una serie di eventi, la cosa non andò a buon fine. Io mi sento molto responsabile di ciò che faccio, quindi non posso sopportare chi vuole sovrastarmi. Posso vantare una grande esperienza in svariati posti del mondo ma ti assicuro che la vera napoletanità piace in tutto il mondo. La prova l’ho avuta quando al secondo giorno di apertura, a Verona, una signora mi chiese una pizza con il piennolo; alla fine passò a complimentarsi per l’impasto ma si disse delusa perché a suo parere io non le avevo dato il vero piennolo. Ovviamente le chiesi di più, spiegandole anche caratteristiche e differenze dei pomodori e così scoprimmo insieme che fino a quel momento lei aveva mangiato datterino giallo spacciato per piennolo.
Ad ogni modo posso dirti che poi la signora è tornata. Quindi non è questione di idea di pizza ma di conoscenza, preparazione e serietà. Basterebbe portare le proprie conoscenze e la propria cultura in maniera pulita: le cose vanno raccontate e sia ben chiaro che vanno raccontate e non spiegate, non ci si deve perdere nei tecnicismi e nei dettagli che spengono l’interesse e gli animi.
E soprattutto non ci si può appellare ai prodotti e alla loro provenienza, alla geolocalizzazione o al km zero!
Non sposi la questione del km zero?
La storia del km zero è una grande stupidaggine perché il prodotto arriva ovunque. In Giappone c’è proprio il culto della pizza napoletana e giunge fin lì qualsiasi cosa si voglia. Io stesso sono stato in Thailandia e ho fatto la carta dei pomodori. Ripeto: ovunque possono arrivare i prodotti.
La materia prima che costa, costa e basta. Io tutti gli anni vado a seminare e raccogliere con i contadini e, c’è poco da dire: un barattolo di corbarino ha il suo costo. E a volte il costo è anche più alto perché stiamo sotto il cielo: l’anno scorso con quel maggio piovoso e distruttore c’è stata una perdita immane oppure prendiamo quest’anno con una estate anomala e le conseguenze del covid.
I problemi arrivano con mozzarelle e fior di latte che essendo prodotti freschi, pur arrivando dappertutto, devono essere congelati. E anche in quello io mi sono adattato, ingegnato e reinventato: comprai il caglio fresco e, per non avere prodotti congelati, mi son fatto da solo il fior di latte.
Tutto sta ad adattarsi, ad assecondare un po’ il caso?
Ascoltami Francè: per caso nascono le cose migliori! Nella vita quasi tutto capita per caso e quasi tutti dobbiamo qualcosa a qualcuno.
C’è stato un anno, non ricordo precisamente che problema ci fu con la rucola: non era reperibile o forse ci furono altri problemi, insomma non ricordo. Mi misi subito a lavoro per trovare un degno sostituto e mi venne in mente che a Napoli, 30-40 anni fa, si faceva una insalata particolare a base di rucola e portulcaca. Così mi venne in mente di provare. Si è poi scoperto che la portulaca è carica di proprietà benefiche, è ricca di omega3, di nutrienti. E sono stato il primo ad utilizzarla! Ancora oggi la portulaca è sulle mie pizze e viene richiesta, tant'è che è una di quelle cose che mi faccio arrivare sempre qui a Verona.
Sapersi adattare, saper andare avanti sempre. Indubbiamente dico grazie a chi ci ha nobilitati, grazie a chi ci ha dato un riconoscimento come quello dell’Unesco, grazie pure a me stesso (se me lo merito), ma se una cosa è semplice perché dobbiamo renderla difficile? Quando si complicano le cose si sbaglia più facilmente.
Mi ricordo sempre che durante le lunghe file presso gli uffici di Napoli, c’era sempre qualcuno che invocava una rapidità maggiore e la risposta standard era “mi dovete dare il tempo, mica sto a fare una pizza?” che è espressione, sì, di quanto fosse sottovalutata la cosa ma anche della sua semplicità, della sua popolarità.
Io devo ringraziare mio padre e tutta la sua generazione: hanno dato tutto di loro stessi per farci arrivare dove siamo ora. Bisogna essere arraggiati e non arrabbiati, bisogna lavorare pensando al risultato, alla riuscita, pensando di dare il cuore. Ai miei tempi non si guardava mai al collega, nel senso che la competizione era sempre sana e mai fatta con cattiveria.
Adattarsi vuole anche dire essere al passo sempre, ma tu giochi sempre d’anticipo. Ci sono progetti per il futuro?
"Ah non hai nemmeno idea di quanti, ma dovrete aspettare per saperne di più! Ti dico solo che mia moglie Stefania mi ha guardato e ha detto: "quindi ricomiciamo?"
Ho grandi intenzioni, questo è certo!"
Guglielmo Vuolo è l’essenza di Napoli, quella Napoli che non riesce a stare ferma e che si tiene sempre un passo avanti ai tempi pur pescando dal proprio passato, quella Napoli che insegna storia e tradizione pur non prescindendo dalla contemporaneità. Guglielmo Vuolo e la sua verace napoletanità sono simbolo di una semplicità che ancora riesce a donare il gusto della vita.
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