Il Migliaccio. Ecco la storia delle origini raccontata da Nino Leone
Da un post su Facebook nasce questo racconto sul migliaccio dolce o rustico tipico della Campania
Nino Leone, medico e scrittore.
È l'autore di numerosi libri fra cui La vita quotidiana a Napoli al Tempo di Masaniello, un grandissimo successo editoriale con Rizzoli prima e ora con Polidoro.
Ci regala questa riflessione letteraria e antropologica nata da una battuta sul migliaccio colta in rete su Facebook in questi giorni.
Sarà il nostro ospite speciale.
di Nino Leone
A Santo Saluiésto, ó migliaccio sott’ô tiésto.
Peppino Caramiello, papà officiante di “Le Gourmet” in quel di Sperone, AV, chiede ai propri «documentaristi di fiducia, Tommaso Esposito e Nino Leone, se hanno qualche notizia di questa tradizione».
Il Post di Peppino Caramiello su Facebook
Tommaso, onesto come l’ostia sacra, dice di non avere notizie dirette, azzardando tuttavia la probabile «imminenza del vero Capodanno per la cultura popolare campana che viene il 17 gennaio Sant’Antuono …lèva ó viécchio e métte ó nuovo! [l’ortografia napoletana è colpa mia…]», andandoci, secondo me, anche molto vicino.
Secondo la tradizione classica latina, nelle cerimonie ufficiali del primo dell’anno, volte a garantire prosperità ai nuovi raccolti, si offriva a divinità varie, come Giano Pomona, Rea, farro salato - il grano della pastiera - più un dolce impastato con farina, uova, olio e cacio, che a qualcuno potrebbe ricordare, guarda caso, il migliaccio del San Silvestre speronese.
Eh già, basterebbe sostituire il caseum della ricetta latina con della buona ricotta o latte, a meno che non sia vietato da uno specifico tabu, et voilà, il gioco è fatto.
Per di più, dalle nostre parti, cioè nei territori della piana e del preappennino, la giurisdizione divina sui raccolti, diciamolo laicamente, era affidata a Cibele, una dea egeo-anatolica, tuttora rintracciabile sotto la superficie dei rituali religiosi mariani e segnatamente quello di Montevergine, laddove Virgilio colloca uno dei principali templi dedicati alla dea frigia.
Si potrebbe perciò ravvisare nel migliaccio di Santo Saluiésto uno delle tante espressioni dei riti propiziatori dell’anno che entra. Il fatto poi che in area avellana si attesti all’ultimo giorno dell’anno potrebbe essere addirittura una reminiscenza diretta del culto di Cibele, benché nei secoli si sia persa memoria del rito primigenio.
In un viaggio fatto a ritroso, dal santuario di Madonna dell’Arco ai templi della Grande Madre in Asia Minore, l’odierna Ionia turca, terra di prodotti eccellenti quanto i nostri, nonché di menti eccelse quali Omero, Talete, Ippocrate, Ippodamo e altri, si palesarono ai miei occhi, freschi della lettura del saggio di Borgeaud, La madre degli dei: da Cibele alla Vergine Maria, rimandi liturgici piuttosto familiari.
La dea della terra e della fecondità Cibele (foto Nino Leone)
Tutte le statue della dea Cibele, come molte immagini mariane, raffiguravano una divinità assisa in trono con ai lati figure d’animali, con in mano, distintamente, una torta votiva e un cembalo: due oggetti, a detta degli archeologi, specificamente identificativi dell’antica dea.
Il tamburo è simile in tutto e per tutto alla nostra tammorra che, da tempi immemorabili fino a qualche decina di anni fa, si procurava esclusivamente in occasione del pellegrinaggio pasquale al santuario domenicano santanastasiano; è la stessa che si vede in mano a una ragazza del ‘600, ritratta davanti al santuario da Micco Spadaro; o andando più indietro, molto simile al cembalo dell’affresco di Villa dei Misteri, a Pompei. Sarà forse un caso che pure dai pellegrinaggi settembrini a Montevergine si tornasse battendo allegramente il tamburello da tarantella e pescando nocciole dal canestiéllo pieno di vuallàne e antrite?
E il dolce - mi frollava in testa - di cosa sarà fatto? Scavo, leggo e mi informo fino a scoprire che già nell’Iliade si parla di un torta votiva, a base di farina, uova, latte e mosto di vino, offerta alla stessa divinità, ma da spartire poi tra gli ospiti e i partecipanti al rito.
'O migliaccio ddoce di Carnevale
Insomma gira e rigira il migliaccio ha già in antico le sue varanti mediterranee, - saltando in toto il discorso, troppo lungo, rispetto alle autonomie territoriali, soprattutto italiche, e all’uso ricorrente di prodotti prossimali o a chilometro zero - alle quali si aggiungono poi quelle locali, visto che la gente di costa chiama con lo stesso nome una pizza dolce cotta in forno, con la variante degli spaghetti capellini al posto della farina di semola offerta a Cibele.
Accade lo stesso a Somma e lungo il versante est del Vesuvio.
E tra le nebbie della memoria, da qualche parte riaffiora un flebile ricordo di una pizza pasquale, ripiena con maccheroni, tipo ziti, anche tra i miei parenti. La suggestione di un legame rituale comune a tutti questi dolci è indubbiamente forte.
'O migliaccio 'e scagliuozzo
Non so se la curiosità di Peppino Caramiello sarà soddisfatta, giacché confesso con altrettanto candore di Tommaso, che odo questa espressione per la prima volta, eppure è bastata ad accendere i quattro neuroni ancora funzionanti sulla complessa vicenda culturale, etnica e religiosa di questo areale regionale. Rimando tuttavia ad altra occasione, ferma restando l’ospitalità di Tommaso e per quanti fossero interessati a ragionamenti di non specifica tecnica culinaria, la riflessione su diffusione e diversificazione antropoterritoriale della cucina tradizionale.
Con l’occasione rivolgo a Peppino, Tommaso e quanti leggeranno i buoni auspici del nuovo anno, con una misurata fetta di migliaccio di Santo Saluiésto, presso “Le Gourmet”. Perché no?
Ah eccovi la ricetta del migliaccio di costiera, testé dettatami da Giovanna D’Abunto:
Capellini 1kg, 6 uova, 1 l latte, formaggio qpiù, 100 g zucchero. A chi piace pepe!
30 min. in forno 200°, poi lasciare spento per asciugatura del latte.
Nino Leone medico e scrittore