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Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

Dal termopolio di Pompei allo streetfood nel mondo.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

La scoperta del Thermopolium a Pompei non smette di far parlare appassionati e curiosi, soprattutto ha scatenato il contrasto tra il punto di vista degli storici integralisti e la visione più contemporanea di chi ne rivede un antenato di fast food e street food.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

Il ritrovamento del termopolio ha suscitato un forte entusiasmo non perché fosse il primo piuttosto perché perfettamente conservato forse proprio grazie alla copertura creata dalla corrente piroclastica. Nella sola Pompei se ne contano una ottantina, ma nessuno con il bancone interamente dipinto, a conferma dell’eccezionalità del ritrovamento. Si tratta di un luogo di ristoro in uso nell'antica Roma, dove era possibile acquistare e consumare bevande calde e a volte anche cibo pronto per il consumo. Era costituito da un locale di piccole dimensioni con un bancone nel quale erano incassate grosse anfore di terracotta, atte a contenere le vivande. Aveva probabilmente una funzione simile ai moderni bar. Ne sono conservati resti anche a Ercolano e Ostia ma le immagini del Termopolio di Pompei sono precise, integre, con colori intensi e nitidi raffiguranti, oltre all’immagine di una ninfa marina a cavallo, figure di animali “con colori talmente accesi e vivi da apparire quasi tridimensionali”.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

Gli animali rappresentati sarebbero gli stessi venduti all’interno dell’antica struttura ed a rafforzare la veridicità della supposizione ha contribuito il ritrovamento di frammenti ossei e resti di cibi all’interno di recipienti ricavati nello spessore del bancone contenenti cibi destinati alla vendita che combacerebbero con i soggetti delle illustrazioni. Parliamo di animali e cibi di vario genere: dalle lumache alle due anatre germane esposte a testa in giù, pronte per essere preparate e consumate e di cui sono stati rivenuti anche pezzi di ossa, ma anche un gallo e un cane al guinzaglio, sullo stile del famoso “Cave Canem”.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

Ovviamente le squadre di ricerca e gli specialisti del Parco archeologico di Pompei hanno subito iniziato ulteriori ricerche ma soprattutto hanno scelto di proseguire con gli scavi, in quanto si potrebbe ampliare la conoscenza delle abitudini alimentari di quell’epoca e perché il termopolio si trova proprio davanti la “piazzetta“ in cui erano già emerse una fontana, una cisterna e una torre piezometrica per la distribuzione dell’acqua.

Ma capiamoci di più!

Il termopolio nasce principalmente allo scopo di dare la possibilità di consumare il prandium (il pasto) fuori casa ed in maniera rapida, usufruendo di cibi pronti al consumo. Chi poteva avvalersi di tale scelta era certamente la classe medio alta romana in quanto dovevano poterselo permettere oltre ad averne l’esigenza, perché è vero che vi si trovavano pietanze già cucinate perchè gran parte delle abitazioni erano sprovviste di cucina ma avevano di certo la possibilità di fuochi all’aperto. Dunque il primo discriminante era la possibilità economica.

Ecco cosa ci racconta Tommaso Esposito a riguardo:

“Il target del termopolio a Roma come a Ostia, a Pompei, a Ercolano era il cittadino che innanzitutto potesse permettersi il prandium cioè il secondo pasto della giornata, una sorta di brunch che seguiva la prima colazione che era consumata in modo solitario a casa ed era abbondante, a base di pane, frutta, formaggio e talvolta carne. Il prandium, invece, si consumava velocemente e consisteva in uno spuntino soddisfatto proprio dall'offerta dei termopoli a cui si rifocillavano quanti costretti a svolgere vita pubblica o un lavoro durante le ore mattutine: politici, mercanti, artigiani. La vita quotidiana del cittadino romano si svolgeva praticamente all'aperto e questa sorta di bar con annessa gastronomia serviva piatti sia freddi che caldi. Il pasto più importante invece era la cena che rappresentava, a partire dal pomeriggio e per i cittadini romani e pompeiani più colti e abbienti, il momento della giornata in cui ci si riuniva per continuare il simposio letterario, artistico e politico. Dopo il bagno alle terme, che avveniva tra le 12 e le 14, si consumava la cena che iniziava, come testimoniano Marziale e Giovenale tra le 15 e le 16 per finire verso il tramonto."

I ritrovamenti hanno fatto luce su piatti con "l'impiego congiunto di mammiferi, uccelli, pesce e lumache nella stessa pietanza” che qualcuno ha paragonato ad una paella. La cosa non è particolarmente piaciuta a chi tiene fortemente al rispetto della cultura latina, in quanto fa risultare poco veritiera l’informazione e più che delucidare genera confusione.

Così abbiamo chiesto a Giovanni Fancello, giornalista e storico gastronomico, di darci qualche indicazione in più.

L’informazione è stata caricata di diverse superficialità. Oltre a dare notizia del ritrovamento sono stati usati termini inesatti per definire il cibo dell’epoca. Prima di tutto non lo definirei street food in quanto si parte da concetto che i latini avrebbero parlato di Cibus e non di food. Usare i termini contemporanei inglesi sui ritrovamenti archeologici romani è sempre sbagliato. È errato farlo anche per i ritrovamenti romani in Britannia, colonia romana dal 43 al 410 d.C, figuriamoci a Pompei.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

Non è quindi da tradurre con street food o fast food. Altro errore è quello di parlare di dieta mediterranea che è un’invenzione degli anni 50 e che non c'entra davvero nulla con ciò che mangiavano i latini. Pompei ha subito l'eruzione nel 79 dc quindi in piena epoca imperiale. Di quello stesso periodo è Marcus Gavius Apicius, il più grande cuoco della Roma imperiale che ha lasciato un ricettario e che ci dà modo di provare che le abitudini alimentari del tempo non sono per nulla associabili alla dieta mediterranea. La storia della paella poi… sia come forma di pentola che come tipo di preparazione stiamo parlando di qualcosa di settecentesco quindi decisamente lontana dalla idea che i latini avevano in mente. La ricetta “storica” della paella spagnola prende il nome dalla padella in ferro battuto (creata intorno al XVII secolo) e il nome deriva dal latino “patella” quindi non per gli ingredienti, sempre in continua evoluzione.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

Le informazioni sono date sbagliate e non si può quando c’è in ballo un’opera così meravigliosa e precisa. Bastava leggere le opere di Plinio, Catone, Virgilio, Marziale, Columella ma principalmente il De re Coquinaria di Marcus Gavius Apicius (25 a.C.-37 d.C.), per capire che dopo di lui non c’era più niente da scoprire della cucina antica; grazie a lui si sono potute avere le grandi invenzioni della cucina contemporanea.”

Ed è proprio Apicio a darci la spiegazione di un altro particolare del ritrovamento: sul fondo di un dolio, ovvero il contenitore da vino sulla base della bottiglia per attingere (rinvenuta al suo interno), è stata individuata la presenza di fave, intenzionalmente frammentate e/o macinate. Nel De re Coquinaria, Apicio spiega il motivo: infatti pare venissero usate per modificare il gusto e il colore del vino, sbiancandolo, il vino veniva dunque conservato in dolo che aveva sul suo fondo una tegola per separare i legumi dal liquido ed evitare di mescolare il vino con il suo fondo ben spesso poco gradevole.

Insomma, nonostante vi sia sicuramente un abuso della terminologia in lingua inglese che conferisce una sorta di contemporaneità e di leggerezza che quasi sembrano sminuire il rilievo storico che la scoperta di Pompei riveste, non si può di certo negare che se pensiamo ad un bancone su strada che vende cibi pronti da consumare al volo, anche in piedi, o comunque già cotti e da portar via… beh, ad oggi, ci viene da dire street food.

La struttura del bancone, proprio per il fatto di avere al suo interno delle grosse anfore di terracotta incassate in quanto atte a contenere le vivande ed a tenerle calde, farebbe pensare anche ad una similitudine con una tavola calda: rapidità di consumo e riduzione al minimo del servizio. Se vi fossero anche preparazioni veloci avrei addirittura parlato di fast food dove gran parte delle pietanze vengono fritte per ultimarne la cottura.

I cibi da strada spesso riflettono le culture locali tradizionali ed esistono in una varietà infinita.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

C'è molta diversità nelle materie prime che tendono ad essere autoctone e si fa riferimento ai piccoli produttori vicini. Al contrario, i fast food sono specializzati in un minor numero di cibi che di solito vengono preparati friggendo. Queste imprese, che di solito sono al chiuso, investono molto in posti a sedere, aria condizionata e decorazioni luminose, mentre lo street food si avvale di locali all’aperto o al chiuso ma comunque con un bancone dal facile accesso su strada che non punta ai posti a sedere ma al consumo rapido o addirittura da portar via.

Sono esattamente tutti questi piccoli dettagli che rendono l’attività dei termopoli quella che si può dire una anticipazione dello street food. Ed ora vi spiego il motivo.

La definizione della FAO di street food è data da “quegli alimenti, incluse le bevande, già pronti per il consumo, che sono venduti (e spesso anche preparati) soprattutto in strada o in altri luoghi pubblici (come mercatini o fiere), anche da commercianti ambulanti, spesso su un banchetto provvisorio, ma anche da furgoni o carretti ambulanti.”

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

Il “problema” è che questa definizione arriva nel 1986 a seguito del Workshop regionale FAO sugli alimenti di strada in Asia, tenutosi a Jogjakarta, Indonesia.

L’intervento della FAO mirava a regolamentare e stabilire criteri di sicurezza e normativi partendo dai maggiori “produttori di street food”, dunque si cominciò nel 1988 dall’india per poi abbracciare tutto il sud-est asiatico e l’Africa, paesi con un forte consumo ma soprattutto una forte tradizione di quello che (grazie a loro) è stato definito poi “Street Food”.

Non va dimenticato che lo street food offre occupazione!

Ogni impresa di street food è generalmente di piccole dimensioni, richiede competenze relativamente semplici, strutture di base e piccole quantità di capitale, forse è per questo che sono molto numerose e hanno un notevole potenziale riguardo la produttività di reddito e di occupazione. l'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha scoperto che i venditori ambulanti costituiscono il 29 per cento della forza lavoro urbana attiva in America Centrale, mentre Bogor (con 250 mila abitanti) conta 18 mila imprese: una ogni 14 abitanti.

L'attività di street food coinvolge spesso intere famiglie. In tutto il mondo, le donne svolgono un ruolo molto importante nell'industria dello street food: sono coinvolte nel 90% delle imprese nelle Filippine, nel 53% in Senegal e nel 40% in Indonesia.

Nel sud-est asiatico, i guadagni medi di un venditore possono essere da tre a dieci volte superiori al salario minimo e sono spesso paragonabili ai salari dei lavoratori qualificati impiegati nel settore formale. Altro fattore sono le spese relativamente basse per alcuni tipi di venditori. Tra i "benefits" possiamo anche annoverare la possibilità di scegliere l'orario di lavoro, i pochi vincoli sui loro movimenti e la possibilità di essere lavoratori autonomi. Negli svantaggi, invece, c'è da dire che i venditori potrebbero dover lavorare per lunghe ore in condizioni avverse ed i rischi sono a carico esclusivo del venditore. Inoltre, la loro professione è spesso considerata di basso rango e maggiormente esposta alla criminalità.

Ricordiamoci anche che coprendo il bisogno di clienti di diversa estrazione economica è un vantaggio poter avere pasti nutrienti a basso costo. E infatti in Africa e in Asia, le famiglie spendono dal 15 al 50% del loro budget alimentare in street food. Molte persone in Asia preferiscono fare piccoli acquisti frequenti in luoghi convenienti. Chi ha poco o nessun reddito dipende quasi esclusivamente dal cibo fornito dai venditori di cibo di strada. Insomma lo street food è un vero affare per i clienti se si tiene conto delle esigenze di tempo e costi di cibo, e così lo diventa anche per i venditori pur inserendo carburante, attrezzature per cucinare e trasporto.

Per lo stesso motivo per cui ci sembra assurdo parlare di street food per il termopolio, sarebbe assurdo parlare di cibo da strada per tutto quanto avveniva usualmente dappertutto nel mondo. Infatti se non si trova l’uso dell’espressione in alcun documento prima della creazione del termine da parte della FAO, è perché non vi era nessuna necessità di “etichettare” quella che era una pratica comune e senza alcuna connotazione particolare.

L’ennesimo “problema” nasce con la trasposizione di “street food” nell’italiano “cibo da strada”. Non devo certo dirvi io che l’inglese si presta meglio all’orecchiabilità, posso dirvi piuttosto che non troverete traccia dell’espressione cibo da strada o street food fino ai primi anni 2000 in Italia. Quella che definiamo una tradizione antichissima di cibo da strada, in realtà, anche se più antica della formulazione del termine, non aveva avuto precedentemente necessità di essere appellata. Era cosa normale mangiare passeggiando una pizza a portafoglio o un/una arancino/a o un pezzo di focaccia di Recco o un cuoppo o un panino con lampredotto, insomma non v’era motivo di battezzare quel modo di fare fino a quando non è stata data la possibilità al popolo di mettere in circolo quella data terminologia. Così come per il successo di cibi e pietanze, anche per il linguaggio serve popolarità e uso comune per vederlo entrare di diritto nel bagaglio personale e identitario di un popolo.

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Oggi, nel mondo, 2,5 miliardi di persone al giorno si alimentano in questo modo. Il cibo da strada fa parte del più ampio fenomeno del cibo informale (informal food sector), un settore che nei paesi in via di sviluppo rappresenta una delle strategie adottate per provvedere ai bisogni alimentari. I prodotti ormai sono venduti al di fuori delle loro zone di origine addirittura anche in parte perdendo le caratteristiche iniziali e adattandosi alle abitudini del paese in cui viene proposto (è il caso di pizza e kebab). Tuttavia esistono altri “piatti” che nonostante siano ampiamente diffuse non hanno perso la connotazione etnica e identitaria.

La crescita della popolazione urbana ha stimolato un aumento del numero di venditori di cibo da strada in molte città del mondo, inoltre la migrazione dalle aree rurali ai centri urbani ha creato un bisogno quotidiano tra molti lavoratori di mangiare fuori casa. La domanda di cibo pronto per il consumo (relativamente poco costoso) è aumentata poiché le persone hanno meno tempo per preparare i pasti.

Ed ecco che torniamo allo scopo dei termopoli di cui ci parlava Tommaso Esposito. Perché alla fine sarà cambiato il modo di identificarlo e di certo c’è stata un’altalenanza del pubblico di riferimento ma resta che il cibo da consumare in strada è sempre esistito nella nostra storia e nelle nostre urgenze.

Parliamo di più di 3000 anni fa quando in Grecia i venditori ambulanti preparavano, nei propri baracchini, minestre di fave e zuppa calda di ceci. Piatti semplici, veloci e saporiti che sfamavano i passanti.

Se ci spostiamo nell'antico Egitto, al porto d'Alessandria, per un pranzo veloce e senza troppe pretese economiche, gli ambulanti proponevano a marinai e passeggeri un fritto di pesce o qualche spiedino di carne (a me viene subito da pensare al fish&chips o agli arrosticini).

Arrivando all'Antica Roma si può iniziare menzionando le "tabernae", dei piccoli banchi di vendita che potevano comprendere anche prodotti alimentari ma più specificatamente c’erano appunto i “thermopoli” a vendere cibi e bevande caldi, già pronti e cotti ritrovate, che si affacciavano alla strada e proponevano cibo caldo ed economico, da mangiare direttamente sul bancone.

Nel Medioevo cambia la “collocazione sociale” perché erano garzoni, facchini e tuttofare a mangiare in strada, mentre i signori banchettavano in casa. Proprio allora nacquero i "pates" francesi, torte farcite con carni e verdure da mangiare con le mani senza bisogno di posate, o le famose "pie" inglesi, torte salate ripiene che sono poi divenute il cibo quotidiano di operai e minatori o ancora il "fish and chips" preparato dagli ambulanti.

Tra il Cinquecento e il Seicento l’industria della pasta di Torre Annunziata e Gragnano si afferma per poi diventare famosa in tutto il mondo. A fine settecento Gragnano conta 25 i mulini che macinano grano duro, mentre a Torre Annunziata ci sono 26 pastifici che producono oltre 400 quintali di pasta al giorno. È proprio questo il periodo in cui nasce il Grand Tour, un viaggio per il continente compiuto dai giovani europei appartenenti all’aristocrazia e alla borghesia: il primo esempio di turismo moderno e Napoli ne è meta. Ed è proprio questo il periodo in cui a Napoli si afferma il fenomeno dei “mangiamaccheroni”, giovani scansafatiche, appartenenti a ceti medio bassi, detti “lazzaroni”, pigri ma scanzonati.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

I nuovi “mangiamaccheroni” non rispettano sicuramente tutte le norme di igiene e salute, ma diventano da subito un simbolo del folklore e del costume partenopeo. Il “cibo di strada” è un cibo cotto e mangiato e così avviene con la pasta che viene mangiata all’aperto anche per ragioni di spazio, a causa degli spazi molto ristretti delle abitazioni che non permettevano la cucina. I lazzaroni cucinano e mangiano direttamente sul posto: “senza forchetta, con le mani, sollevati mezzo palmo sopra la bocca e avvicinati alla bocca con un piccolo movimento a spirale.”

Nell’ottocento ci ritroviamo a osservare il fenomeno street food ma ancora una volta senza avere bisogno di definirlo tale: è usanza, è normalità grazie alla vendita nei vicoli e nei quartieri (come la Pignasecca a Napoli).

Dopo un allontanamento dal cibo di strada avvenuto nel Novecento, gli anni duemila hanno portato ad un totale ritorno allo "street food", seppur con una mentalità totalmente differente: è uno stile, una moda soprattutto per quanto riguarda i più giovani. La presenza di food truck, apecar, bancarelle e ambulanti è assai più massiccia, più varia ma soprattutto più accessibile senza troppe differenze tra pranzo e cena o tra festivo e feriale. Oggi lo street food è simbolo della individualità e della creatività in quanto le proposte sono sempre più particolari e identitarie ma soprattutto perchè si è riusciti a fare tendenza di una necessità.

Il termopolio a Pompei: antenato dello streetfood? Abbiamo chiesto il parere a due storici gastronomici.

Dunque potrà essere scorretto definire il termopolio un antenato dello street food ma... voi oggi come lo chiamereste? Vi ci vedreste o sentireste a dire cose tipo "posso lavorare da casa grazie al mio calcolatore elettronico"? Oppure "tizio si è fatto sfuggire, un po’ per sbadatezza e un po’ appositamente l’epilogo di un qualcosa"? (che poi usate topping. finedining, copyright, backgrounf, feedback, dress code. match, display, mail, party, look, gossip, red carper, team. easy!!!)

Esattamente come computer o spoiler, street food è entrato nel nostro uso dato che nei nostri costumi c'è sempre stato.

Il giro è stato lungo ma serviva a tornare al punto di partenza, solo con maggior consapevolezza: è di certo nelle nostre corde più profonde l’abitudine a fare delle strade i più grandi ristoranti a cielo aperto.

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