Per i suoi 130 anni di vita "La Nuova Sardegna" mi ha affidato un compito: raccontare la cucina sarda dal 1891 a oggi
130 anni di la Nuova Sardegna: racconterò la gastronomia sarda dal 1891 ad oggi in un nuovo libro
Il quotidiano La Nuova Sardegna quest’anno festeggerà il 130° anno di vita.
Per festeggiare lo storico compleanno sarà in edicola un libro realizzato per l’occasione dall’editore DBInformation, e che si intitola proprio “130 anni con La Nuova Sardegna”. Dodici firme prestigiose, precedute dalla prefazione del direttore della Nuova, Antonio Di Rosa, raccontano e analizzano centotrent’anni di eventi e cambiamenti di un giornale che ha accompagnato la vita della Sardegna.
A me è stato dato il compito di analizzare “La gastronomia sarda dal 1891”.
In sintesi ve ne propongo alcune analisi.
Nel 1891 l’Italia politica era unita da trent’anni, ma rimaneva ancora divisa in cucina; a dominare nei ricettari e nei banchetti ufficiali era la lingua francese, mentre nelle varie regioni erano i dialetti a primeggiare.
A Sassari nel 1891 nacque il giornale La Nuova Sardegna, è a Firenze avvenne un fatto di grande importanza per la storia della gastronomia italiana: fu pubblicato il ricettario La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie, a cura di Pellegrino Artusi.
Il ricettario di Artusi tracciava, senza riuscirvi appieno, l’itinerario che si sarebbe dovuto percorrere affinché si facesse un’Italia gastronomicamente unita. Si limitò a indagare solo alcune zone: la Romagna, la Toscana e Bologna in particolare. Citò poche altre regioni e altre vennero del tutto ignorate, come la Sardegna. Ciò accadde perché della cucina dei sardi aveva scarsa conoscenza. Varie possono essere le motivazioni; la principale si può far risalire a quel peculiare metodo di trasmissione orale che accomuna gran parte della cultura sarda. Non è necessario essere filologi o etimologi per riconoscere l’origine latina di tutti quei nomi che definiscono la cucina e l’agricoltura dei sardi, nominativi usati ancora oggi e che resistono all’usura del tempo: trigu, farre, ministru, sapa, casu, mustiu, simula, poddine, merca, fresa, berbeghe, sumen, mustela, lepere, mustatzolu, seada, anzone, tuvara, beda.
Uno sparuto elenco esemplificativo di parole, che per loro natura nominano, identificano, definiscono, conservano memoria, trasmettono sapienza, l’incedere del tempo e lo scorrere della vita.
Nell’Italia gastronomica dell’Ottocento, l’alimentazione delle classi povere era assai lontana e differente da quella dell’aristocrazia. A demarcare questa differenziazione fu soprattutto l’egemonia culturale e l’internazionalismo culinario francese che la nazione italiana dovette subire. L’Italia a tavola era un paese spaccato in due: da una parte coloro i quali mangiavano piatti preparati secondo il «gergo francioso», dall’altra si mangiava e si parlava in dialetto. La cucina italiana era il prodotto di tante città e luoghi diversi, generava fierezze locali ed era priva di un orgoglio nazionale.
La sudditanza culinaria della Sardegna parte da lontano: considerata un’isola esotica, attirò numerosi dominatori, viaggiatori e speculatori, che la ritennero economicamente poco interessante ma appetibile.
Con i trattati di Utrecht del 1713 e di Rastatt del 1714 si concluse la guerra di successione spagnola, iniziata nel 1700, e fu posta fine al dominio della Spagna in Italia e in Sardegna. Quest’ultima fu abbandonata pressoché distrutta dagli spagnoli, divenne austriaca, e nel 1720, a seguito della cessione della Sicilia all’Austria, venne scambiata e ceduta ai Savoia, diventando così Piemontese e prendendo il nome di Regno Sardo-Piemontese.
Giovanni Vialardi, cuoco di Casa Savoia, al servizio del principe Carlo Alberto e di re Vittorio Emanuele II, fu fortemente influenzato dalla cucina francese. Nel suo ricettario del 1854, Cucina borghese semplice ed economica, inserisce sei ricette che nomina «alla sarda»: Petits patés alla sarda magri, Granelli di montone alla sarda, Code di montone alla sarda con le tomatiche, Maccheroni alla sarda, Intingolo alla sarda con tomatiche, Lasagne alla sarda, Timballa di maccheroni alla sarda. Ricette sicuramente destinate al re e alla sua corte, senza alcun collegamento con la cucina praticata dai sardi.
La maestria della Deledda e delle sue opere che ci raccontano il quotidiano anche in cucina fin dal 1888, e ha il potere di prenderci per mano e di scaraventarci in un mondo che percepiamo lontano ma che è la nostra storia.
Il 1909 è un anno assai importante per la gastronomia italiana: si comincia a parlare di «cucina regionale». Lo fa il medico modenese Vittorio Agnetti, che pubblica un prezioso testo dal titolo La nuova cucina delle specialità regionali, che è la prima raccolta organica di ricette di tutte le regioni d’Italia, dal Piemonte alla Sicilia, Sardegna compresa. Per la prima volta nella storia, anche la Sardegna fa il suo ingresso in un ricettario ufficiale, con sei ricette repertate e scritte: tonno arrosto alla Sardegnola; minestra sarda (simbula); arrosto di interiora d’agnello (sa corda); torta di fave (turta de faiscedda); ricotta fritta; torteleddi.
Sembra strano, ma è solo con questo testo che compaiono le prime ricette sarde scritte e ufficialmente documentate. Il primo passo è stato finalmente fatto, e in seguito la Sardegna, con la sua «cucina di casa», entrerà nella storia della gastronomia scritta, privilegio che apparteneva alla sola «cucina di corte». Era il momento in cui prese forma un nuovo nazionalismo che si prefisse la ri-affermazione di un primato gastronomico italiano. In casa reale, nella compilazione dei menù, fu bandito il francese, sostituito dall’italiano. Anche la cucina, come tutte le arti e le scienze, entrò a far parte di quel ristretto numero di specialità che avevano il compito di contribuire alla grandezza nazionale.
La Guida d’Italia del Touring Club, pubblicata nel 1931, avviò un censimento delle ricette italiane. Le suddivise per regioni, province, città e paesi. Sottolineò le produzioni locali, valorizzò tutte le preparazioni culinarie conosciute con nomi dialettali, con la finalità di contribuire a evocare e definire l’unicità di ogni luogo, favorendo il ruolo dell’economia domestica e le virtù gustative e nutritive dei prodotti regionali.
Durante gli anni Cinquanta il nostro Paese riuscì a diventare una delle nazioni più industrializzate dell’Occidente. Sono gli anni del miracolo economico, della crescita demografica, dell’aumento del benessere e del consumismo. La popolazione abbandona le campagne e migra nei centri urbani. Predomina una cucina casalinga, e l’unica trasgressione è la trattoria. La fame si trasforma in un robusto appetito. Ogni prodotto si consuma nella sua stagione. Il cibo che identifica l’intero Paese è la pasta condita con salsa di pomodoro. I prodotti di consumo diventano standardizzati e sempre meno artigianali. Nasce l’industria alimentare. In quasi tutte le case iniziano a comparire gli elettrodomestici: il frigorifero, il primo tra tutti, senza congelatore; in seguito la macchina del caffè, il frullatore e il tostapane. Il primo supermarket apre a Milano nel 1957.
In Sardegna si rimane ancorati alle preparazioni conosciute, non lesinando sull’abbondanza. Era da pochi anni che in casa si beneficiava della luce elettrica. In cucina si usavano i fornelli a carbone e non c’era l’acqua corrente. I frigoriferi, le cucine a gas e i frullatori li possedevano solo i benestanti.
Ora la cucina ufficiale si manifesta nei ristoranti ed è rivisitata, destrutturata, fusion. Sono pochi i movimenti creativi, rispettosi del passato, anche se giovani sparuti ma caparbi cuochi ricercano, elaborano una «nuova tradizione della cucina di Sardegna», utilizzando prodotti locali, che lungimiranti attività produttive territoriali lavorano e producono. Si ha quasi paura di perdere il collegamento con i dettami consumistici e modaioli dell’alta cucina internazionale, che cambia velocemente, modificando concetti e spazio territoriale. Uno stimolo potrebbe essere quello di ristudiare la storia gastronomica dell’isola, anche quella orale, e osservarla tenendo conto della nuova tecnologia, delle nuove esigenze alimentari, della produzione per rivitalizzare una cucina che è rimasta priva di continuità. A casa si cucina senza vincoli culturali e si realizzano pietanze pregne di contaminazioni confuse e terminologie pasticciate, si è persa memoria di preparazioni e prodotti. Mangiare è un rituale collettivo che identifica e definisce un popolo. Alimentarsi è un gesto intimo, etico, politico, che induce a scelte responsabili. Ricercare e premiare attività che sviluppano consapevolezza significa incrementare filosofie produttive che, memori di quello che siamo, anticipano il futuro. La cucina che non si innova, contamina, trasforma, incrocia è destinata a morire. Ma al tempo stesso deve saper conservare e promuovere la propria storia e tradizione.
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