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Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

Ci lasciamo educare ai cibi pronti dalla GDO e poi veneriamo gli chef televisivi

Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

Mi rendo conto di essere antico, insofferente, forse troppo antico. Ho deciso di leggere solo le cose che mi piacciono e di scrivere di ciò che più mi interessa, ma mi rendo conto che è un piacere solo mio. Se poi scrivi di gastronomia e vuoi avere qualche lettore interessato, allora diventa dura. Guai se non parli del cuoco più lanciato del momento o del vino che ha vinto tanti premi sulle guide, perché pochi saranno quelli che ti seguiranno. Io non guardo i programmi televisivi di cucina; non leggo le ricette che i vari siti propongono; non sono attratto dalle foto e dalle procedure sulle preparazioni dei cuochi che riempiono le portate di germogli e petali vari. Trovo tutto noioso e quando ci provo mi sembra di perdere del tempo. Apicio, Ateneo, Maestro Martino e i loro colleghi mi appassionano di più, hanno fatto storia e varcato molti secoli di vita culturale.

Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

A volte mi fermo a riflettere sul perché io sia attratto da questo tipo di gastronomia, anziché da quella contemporanea, consumistica, del momento; essenzialmente perché non ritrovo siano portatori di contenuti che possano durare più di qualche giorno. Non voglio coinvolgervi o annoiarvi ulteriormente con le mie indagini sulla storia della gastronomia, ma stimolarvi perché trovo le nuove generazioni avvolte da un inconsapevole torpore.

Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

Mi rendo conto che il percorso intrapreso dalla nostra alimentazione sul finire degli anni ’50 del secolo scorso, abbia raggiunto il culmine. Così abbiamo iniziato a scimmiottare le stesse filosofie alimentari americane fino ad oggi, in cui ne siamo travolti. Siamo attratti da chi cucina, essenzialmente perché a noi non interessa cucinare.

Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

Le persone hanno tanta voglia di cucina, sì ma di quella vista in televisione: facile da osservare e da dimenticare con la stessa velocità.

Qualcuno prova a darsi un tono intellettuale, acquista testi di gastronomia ma non troppo impegnati. Infatti ha più successo il libro di ricette della cuoca Benedetta Rossi, che i trattati ben scritti e documentati degli studiosi Massimo Montanari e Alberto Capatti.

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La realtà è che stiamo voltando le spalle alla cucina, ci stiamo affidando all’industria alimentare per la preparazione dei nostri piatti. Ormai il 50% del cibo che consumiamo per alimentarci è preparato fuori casa; tutti cerchiamo qualcun altro che cucini per noi e non deve essere per forza un cuoco, basta il supermercato.

Alla cucina abbiamo deciso di dedicare poco spazio della sala, un angolino con un microonde, un frigorifero e, al massimo, una piastra a induzione. Senza neanche accorgercene, gli anni in cui abbiamo reso abitudine l'offerta di cibi confezionati sono sfociati in altrettanti anni di pasti confezionati.

Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

Siamo ciechi e non ci poniamo il problema che l’80% del cibo che consumiamo non finisce nelle tasche del contadino o dell'allevatore ma in quelle dell’industria che compra la materia prima, la pulisce, la cucina, la confeziona e la immette sul mercato affinché un pasto si possa utilizzarlo, riscaldarlo e consumarlo con massima soddisfazione e minima fatica.

Perché chiedersi da dove proviene, chi lo coltiva o alleva, se è di stagione? A scegliere il cibo che più ci piace, ci aiuta l’industria e noi, senza grande riflessione, ci lasciamo condizionare. La verdura che più consumiamo è la patata, fritta perché l’industria ce le sbuccia, le taglia e le frigge, esimendoci dallo sporcare la cucina, perdere tempo e faticare. Non ci chiediamo se sono buone o salutari, l’importante è consumarle davanti alla televisione mentre godiamo di una trasmissione di cucina.

Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

E’ provato che meno si cucina nel quotidiano e più si sviluppa l’attrazione dei programmi televisivi che trattano l’argomento. Questo accade sicuramente perché ci manca profondamente la cucina come luogo culturale profondo, ma non riusciamo a fare lo sforzo di capirne la motivazione. Ogni anno si cucina sempre meno mentre sempre di più si acquistano prodotti già pronti. Il tempo dedicato alla cucina continua a crollare, ad oggi è di venti minuti al giorno, mentre il tempo dedicato alle trasmissioni televisive, dove i cuochi cucinano e noi siamo consapevoli che non avremo occasione di consumare quei cibi, aumenta.

I cuochi li abbiamo fatti diventare più famosi delle star del cinema.

Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

Dedicarsi alla preparazione del cibo è un’attività che definisce l’essere umano, in quanto segna l’inizio della sua cultura, col passaggio dal crudo al cotto. Sicuramente osservare i cuochi che cucinano ci tocca profondamente le corde emozionali più profonde, ma non riusciamo ad andare oltre.

Dedicarsi al cibo e cucinare è un uso saggio del proprio tempo, mentre delegare all’industria quella funzione può solo alimentare il nostro senso di impotenza, dipendenza, ignoranza.

Siamo americani, gastronomicamente e sempre dieci anni dopo, ma americani.

Mala tempora currunt sed peiora parantur – corrono tempi cattivi ma si preparano tempi peggiori.

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