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AUTUNNO A NEW YORK, UN REPORTAGE RANDAGIO Parte II

New York: da Manhattan a Soho a Brooklyn nei dettagli tra pizza, dumpling, cucina orientale e vini naturali

AUTUNNO A NEW YORK, UN REPORTAGE RANDAGIO Parte II

"With the pale light in your hands

Before I understand how it can be

Nick Mulvey

Union Square Green Market sono stato assalito dalla voglia di cantare a squarciagola “with the pale light in your hands", 

così tanto da farsi prendere per uno di quegli sciroccati che affollano i parchi e le vie della Grande Mela, figurati che ce ne sono talmente tanti, alla fine non se ne accorgerebbe nessuno di un matto in più o in meno.

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Preso al banchetto di una piccola bakery seduto in panchina accarezzato dal sole di fine settembre ho mangiato il pumpkin muffin più buono della mia vita, si sentiva la zucca, poco burro e poco zucchero, stupendo. 

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Ho provato un nuovo giapponese, in equilibrio tra stile moderno e tradizionale: Towa 36 W 26th St.

La tempura era eccezionale, così equilibrata, impalpabile e croccante l’ho mangiata solo a Kyoto accompagnato dalla mia amica Matsumiya-san, raffinatissima maestra del tè. Ho pasteggiato con un paio di sake junmai molto duri e umami: il Noguchi Naohiko Sake Institute (NNSI) e il Tamagawa Yamahai Junmai Muroka Nama Genshu “White Label” un sake non pastorizzato con lieviti indigeni fatto dall’inglese Philip Harper nella prefettura di Kyoto. Towa deriva dal Yamato Kotoba l’antica lingua nativa giapponese,“ Towasu” che significa "fare insieme una cosa che durerà per sempre”.

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Lo chef Shirai è venuto alla fine al tavolo a preparaci la panna cotta grattugiandoci su del tartufo nero e gli ho insegnato la parola scorzone che lui ha ripetuto divertito al tavolo per tutto il tempo: “scorsone…scooorsoneeee scooooorsoneeee…"

Brooklyn (Williamsburg)

La mia prima volta a NY è stata alla metà degli anni 90, ero al primo anno d’università. Ho vissuto per alcuni mesi qua a Greenpoint Avenue che al tempo era un quartiere dormitorio suburbano, periferia depressa abitata principalmente da operai polacchi, con le facce fosche uscite da Il Cacciatore (The Deer Hunter) di Michael Cimino. Al tempo nel quartiere stavano girando Donnie Brasco, passavo sempre davanti al Barber Shop che si vede nel film. Williamsburg ormai già da alcuni anni è diventato uno dei quartieri più alla moda del paese con affitti sempre più inaccessibili e i locali più cool frequentati da hipster e profetoni del vino naturale.

Aperitivo al volo da Have and Meyer (103 Havemeyer St, Brooklyn),

così finalmente conosco Alessandro Trezza trasferitosi a NY da decenni, ristoratore talentuoso e molto consapevole sulle materie prime. Mi offre delle eccellenti sardine spagnole e un crostone di pane con una burrata fresca che si fa spedire due volte a settimana dall’Italia. Ci beviamo su un paio di bicchieri del 450 slm di Costadilà per onorare la memoria dell’indimenticato Ernesto Cattel.

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Aperitivo nel dehor interno da Sauced (331 Bedford Ave, Brooklyn) con Transparente,

l’ottimo sidro frizzante svizzero della Cidrerie du Vulcain di Jacques Perritaz importato in Italia da Altrivini.

Delusione totale il Puligny-Montrachet “Le Trézin Superposition” 2020 di Vin Noe del californiano expat in Borgogna Jonathan Purcell che si è fatto le ossa al Domaine de Montille e da Philippe Pacalet, l’ho trovato semplicemente ridicolo, un vino che stava in carta a 400$ ma se l'avessi bevuto alla cieca nel bicchiere non gli avrei dato manco 15$. Vin Noe si trova in una vecchia azienda vinicola ad Auxey-Duresses, i vini prodotti provengono da uve acquistate da Purcell nel Mâcon a Beaujolais a Puligny-Montrachet e a Saint Aubin.

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Cena al The Four Horseman (295 Grand St, Brooklyn) 

una stella Michelin, tuttavia il cibo non mi ha lasciato nessun particolare ricordo o emozione. Anche qui il mais sotto ai cappelletti burro e parmigiano (sic). The Four Horsemen è l’Eldorado del bere naturale in città, mi sarei aspettato piatti più spinti sui contrasti di acidità e amaro, invece sempre il dolce predominante con qualche accenno furbacchione di piccantezza. Avrei voluto prendere una Malvazija Sveti Jakov di Giorgio Clai ma purtroppo il vino non c’era. Allora s’è stappata una magnum 2018 del Sauvignon Sancerre “Akmeniné” di Sebastien Riffault, niente di esplosivo ma meno floscio delle ultime cose bevute di Riffault. Dopodiché La Pura 2019 di Mas Candí, uno Xarel.lo del Penedès in Catalogna, l’espressione più didattica direi del vino bianco addomesticato fatto in anfora: fondamentalmente piatto, pettinatino, anonimo.

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Dai vini aranciati ai vini grigi è un attimo, come quel georgiano insipido stappato da Shukette (230 9th Ave) a Chelsea dove forse ho mangiato l’hummus più buono escluso quelli mangiati a Beirut.

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L’Arbois Rouge 2019 “Singulier” a base di Trousseau del Domaine Tissot non era malaccio. Selvatico, speziato e aromatico il giusto. Il Trousseau come vitigno appartiene alla stessa famiglia del “bastardo portoghese” con cui si produce il Porto. A finire però, il palato gridava vendetta, non si poteva perciò chiudere il cerchio se non con le Lambic Bio a fermentazione spontanea di Cantillon: la Geuze e la Krick meravigliosamente fresche, taglienti e digestive. Ho assaggiato anche un goccio della grappa niente male di Vincent Marie “No Control” dell’Auvergne “Du Marc dans les Veines”.

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L’ultimo giorno, dopo la visita alla Morgan Library, a Koreatown (Midtown) ho cenato al mio vegetariano preferito Hangawi (12 E 32nd St) un coreano-vegano eccelso dai piatti solidi e sostanziosi.

Pasteggiando con un tè verde “imperiale" cioè da germogli con una foglia (pekoe), ho mangiato dei dumplings al vapore che ne avrei presi una montagna così come i delicatissimi dumplings in sfoglia di tofu ripieni di cavolo. Ovviamente come piatto principale ho preso il Del Sot Bibimbap, la tradizionale ciotola di pietra incandescente portata al tavolo con riso croccante e kimchi di base, quella sera ho ordinato lo Zen stone bowl rice con verdure di montagna, funghi e riso integrale bio.

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Il due febbraio scorso 2-02-2022, data cabalistica, ricorreva il centenario dell’Ulysses di Joyce, il libro dei libri. Il pomeriggio l’ho passato alla Morgan Library dove c’era la mostra dedicata al romanzo dei romanzi “One Hundred Years of James Joyce’s”. Costantin Brancusi ha disegnato vari ritratti di James Joyce che gli furono commissionati dagli espatriati americani Harry e Caresse Crosby per la loro edizione limitata degli estratti del Finnegans Wake. Tra questi ritratti c’era un’aspirale e l'aveva intitolata “Simbolo di James Joyce” che nell’edizione del Finnegans di cui sopra diventa: “Ritratto dell’autore.” Quando John Stanislaus, il papà di Joyce vide questo “ritratto”, con un’ironia sagace come quella del figlio pare che abbia esclamato: "Jim è cambiato più di quanto pensassi!”

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