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Guida Michelin: La critica della ragion perduta

Guida Michelin Italia, una critica da italiano

Guida Michelin: La critica della ragion perduta

Criticare la Guida Michelin può sembrare un clichè, soprattutto dopo ogni premiazione. Diciamoci la verità, ogni cuoco ha sempre visto nella stella Michelin il riconoscimento di un lavoro fatto negli anni che venisse appunto riconosciuto dalla miglior organizzazione di critici gastronomici al mondo, l’elitè della cucina d’autore.

Anche io quando mi sono affacciato al mondo della ristorazione nella vita lavorativa guardavo a la Guida Michelin con la stessa ammirazione che può nutrire un calciatore che si accinge ad entrare in campo e guarda lo stadio gremito di tifosi che assistono alla finale dei Mondiali. Ed è cosi ancora oggi, per tutti quelli che scelgono questo settore e intendono praticarlo in un certo modo, diciamo gastronomico.

Poi però cresci ed inizi a guardare le cose con occhi diversi, interrogandoti su più fronti, invece che avere i paraocchi e non cambiare mai idea.

Che i francesi siano bravi nel marketing è cosa nota.

Se analizziamo ad esempio, al di là della cucina, il mondo del vino: sono i numeri uno. Anche in termini di qualità? Probabile.

Questo perché nel corso degli anni hanno investito nel settore come non mai, fieri di aver saputo sfruttare un mercato con professionalità e visione. Il contesto pedoclimatico, il terroir, la suddivisione delle zone, una classificazione “nazionale” e non fatta da enti privati che suddivide le produzioni in vari crù e varie fasce di prezzo, senza che nessuno faccia bastian contrario o protesti. Ad ognuno il suo mercato: se vuoi bere champagne devi andare in quelle zone lì, se invece vuoi bere pinot noir è un altro il posto giusto; un’organizzazione magistrale e geniale comunicata estremamente bene ai connazionali e ai turisti. Non sono nuovi quindi a saper sfruttare le occasioni e a crearci un vero e proprio business.

Possibile, allora, che l’Italia - il miglior brand vivente in tutto il mondo, culla della civiltà e della Dieta Mediterranea, Patrimonio Unesco - debba essere incline ad una sudditanza dei cugini d’Oltralpe in ambito culinario?

Questione di bravura.

Meritiamo cosi poco?

Questione di scelte.

Il vero problema è che ci siamo fatti fregare. E non si parla di complottismo.

Anche in questo caso qui, i francesi si sono rivelati più bravi di noi e più che restare a guardare dovremmo iniziare a smuovere un intero settore fermo da anni, che (nonostante abbia la fortuna di trovarsi in un posto unico al mondo) non riesce a valorizzarne a pieno le capacità, tanto da essere stati surclassati, nel corso degli anni, prima dalla Spagna con la cucina molecolare e l’inizio di un nuovo percorso con la scienza applicata in cucina, e poi dall’Oriente con il loro rispetto nei confronti della materia prima, il taglio del pesce e l’utilizzo dei coltelli in modo magistrale; ma anche dal Sud America con 20mila ecotipi di patate che diventano oro e 350 mila varietà di pomodoro; e ancora dal Nord Europa con la cucina nordica e - uno su tutti - Renè Redzepi che mentre si riparava dal freddo utilizzava la microbiologia scoprendo nuovi sapori, fermentando tutto quello che gli passava sotto mano.

Nel frattempo in Italia si gridava allo scandalo: "la fermentazione non l’ha inventata lui, qua la colatura di alici l’abbiamo sempre fatta!" Come per il pomodoro del Piennolo, il Cuore di Bue e il San Marzano, vere eccellenze per carità, ma abbiamo circa 30000 piante terresti commestibili nel mondo e non andiamo oltre la lattuga e il radicchio, dimenticandoci della fortuna che abbiamo ad essere nati qui. Noi, dei veri privilegiati.

Qualcuno dirà: “invece di sostenere i nuovi premiati, gli remiamo contro?”

E invece no, non si tratta di non sostenere i nuovi premiati in Italia. Un occhio attento permette di andare oltre il riconoscimento.

Chi vale non ha certo bisogno della stella per affermare la sua unicità. Lo sdoganamento della comunicazione accessibile a tutti ha dato la possibilità a chiunque di ritagliarsi un proprio posto nel mercato; se poi oltre all’apparenza c’è anche sostanza vinci a mani basse: non ricevi la visita degli ispettori ma quella dei clienti che ogni giorno ti scelgono.

Mi viene in mente Franco Pepe, che è riuscito a convogliare migliaia di persone a Caiazzo ogni giorno senza nessuna stella. Geniale.

Potremmo fare molto di più se solo avessimo la conoscenza, la competenza, la dedizione e gli investimenti che invece altri - a differenza nostra - hanno e fanno, costruendo una realtà parallela capace di inculcarsi nella mente e generare profitto. Ma il primo passo dovrebbe farlo proprio chi in quel mare ci naviga, tra lavori extra, ristoranti in perdita e uno stile di vita insostenibile. Lo Stato inoltre dovrebbe tutelare in modo attivo quelli virtuosi, che si dedicano anima e corpo ad una delle cose più importanti per la nostra vita sulla Terra, che passa dai produttori ai trasformatori finali del cibo in modo oggettivo e non soggettivo. C'è un ministro ad hoc e mai nessuno che gli chieda niente.

La stella verde poi è un ulteriore super intuizione.

Possibile che questi ristoranti debbano essere premiati perché virtuosi con la gestione dei rifiuti? Ma non dovrebbe essere la normalità?

Tutti fanno compost e mai nessuno che ci dica questo compost come viene fatto. Il ristorante X ha eliminato la plastica, ma che bravo, mentre l’altro ha messo i pannelli fotovoltaici che contribuiscono per circa il 36% al fabbisogno energetico ma alle 20 ha una prenotazione di 6 persone che vengono dalla Cina e nel menù degustazione servono la polpa di riccio che viene da Hokkaido, il salmone dalla Norvegia, la ricciola d’allevamento, foie gras e wagyu.

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