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Pizza: non salva vite ma è capace di rovinarle.

Pizza: un fenomeno di marketing grazie ai social ed ai pizzaioli

Pizza: non salva vite ma è capace di rovinarle.

“Se c’è un piatto universale, quello è la pizza, perché si limita a una base comune – l’impasto – sul quale ciascuno può disporre, organizzare ed esprimere la sua differenza.”

Ebbene sì, la pizza è il piatto più conosciuto e tra i più mangiati al mondo. Si adegua in tutto e per tutto al posto in cui viene preparata: bassa, alta, cornicione spesso o inesistente, croccante o soffice, a tranci o a spicchi, da passeggio o al tavolo, “monoporzione” o da condivisione. Gli impasti, sempre più svariati la rendono perfetta per accogliere i più diversi condimenti e le più disparate idee di abbinamento.

Eppure continua ad essere uno dei temi più discussi ogni qual volta si incontra il suo campo semantico, finanche quando un colosso internazionale come Netflix riesce a dedicarvici una intera serie di 6 puntate per una produzione Chef’s Table. Puntualmente vengono fuori le frasi fatte che ormai sono un cult: “il segreto della pizza è l’acqua”, “il forno a legna è insostituibile”, “la farina deve essere X”, “esistono solo due vere pizze: margherita e marinara”, “la pizza nasce povera”.

Tutti questi semplici concetti hanno indubbiamente del poetico, un fondamento romantico, ma la pizza di tutto ciò non ha più nulla. O quasi.

Ad oggi la pizza è la forma di marketing più efficace. Attraverso di essa si raccontano vite tutt’altro che circolari, piuttosto spigolose e utili a sottolineare concetti come rivalsa, sacrificio, perseveranza, caparbietà, personalità, valorizzazione (della persona, del team, del territorio, del prodotto). Insomma una vera e propria gallina dalle uova d’oro per la comunicazione che marcia sullo storytelling sempre più smodato, sempre più intrigante perché educatamente invadente, volutamente indiscreto.

I social hanno spalancato le porte alla conoscenza, in tutti i sensi. Personaggi e gente comune ogni giorno ci porta in casa propria, nella vita pubblica e privata (o che tale dovrebbe essere) perché tocca le corde più sensibili dell’uomo: quelle della curiosità.

Instagram forse più di tutti, con il suo basarsi sull’immagine, sul visibile, sul mostrare è stato il traino più forte per una società che bada alle apparenze ma non ha il coraggio di dirlo e allora ha bisogno di un motivo, di una storia raccontata che possa essere il movente per una richiesta di follow o un repost. E così la pizza, nelle sue forme tonde, nei suoi colori incredibili, ha subito trovato la sua collocazione, prendendosi uno spazio preponderante.

Abbiamo tutti postato una pizza almeno una volta nella vita.

E abbiamo iniziato con foto nella sua interezza, per dare profondità a quella semplicità.

Poi non è più bastato. A noi? A tutti.

“Coerentemente” con la metamorfosi del mondo pizza, il mondo social ha spostato l’angolazione sul cornicione: esaltandolo, il primo, ha dato modo, al secondo, di scendere nel dettaglio con foto di sezioni, accentate da contrasto, calore, nitidezza.

A seguire è arrivata l’era del topping superfigo e poi più ricercato e poi in sovraccarico… tanto che le foto sono cambiate ancora: il soggetto in foto è uno spicchio, uno solo.

Le pizze giungevano nei loro magnifici piatti che ci davano soddisfazione solo all’idea del loro diametro; quei piatti sono tornati ad essere di taglia medium perché la pizza giunge al centro del tavolo.

E così “condivisione” è diventato in tutto e per tutto la portata principale.

Condividere da diritto si è trasformato in dovere. Tutto quanto non è su un social abbiamo dubbi a darlo per vero e non il contrario.

Buffo eh?

Una volta una persona saggia mi disse “se è scritto allora esiste”. Ed io manco tanto lo avevo capito sto strano concetto. Poi ho imparato a conoscere il modo di pensare comune che non è fatto di curiosità sana, bensì di indiscrezione (e quanto più una cosa è sfacciata e mormora, più colpisce) e dunque ho compreso che si può dire qualsiasi cosa che a furia di ripeterla diventa verità assoluta.

Intanto la pizza cambiava ancora, anche perché nel suo ruolo centrale e sempre più centrato si spostava dal piatto e puntava al banco, a chi ci fosse dietro.

Il pizzaiolo è diventato il vero motivo per cui scegliere una fila da fare.

Anche perché l’uomo dietro la pizza poteva dare più notizie della pizza in se, ma non solo: la pizza quella è, piace o no (e non ho detto buona o meno), invece l’uomo poteva arricchire gli spiegoni, aggiungere pepe o zucchero, e più di tutto è costantemente sottoposto a spinte che fanno variare le sue reazioni “chimiche e fisiche”.

E allora ce la siamo presa con il termine foodporn che sminuiva questa ossessiva ricerca, lo studio spasmodico della ricetta perfetta; che distruggeva concetti come sostenibilità e km0.

Poi siamo passati a prendercela con la parola gourmet che sembrava eleggesse l’ostentazione come unica sovrana quando poi il solo mantra da inseguire era “semplicità popolare”.

Dunque ce la siamo presa con i giornalisti che giocavano con la comunicazione, titola(va)no con clickbait; che furbamente avevano colto l’insoddisfazione di un comparto che fino a quel momento era la pecora nera della ristorazione; che hanno creato business incredibili basati sulla voglia di emergere, su promesse di aria fritta e sulla competizione che è facile innescare in una partita in cui tutti vogliono giocare nello stesso ruolo.

Gli unici con cui non ce la siamo mai presa sono coloro che hanno ADERITO volutamente alla costruzione di un meccanismo

che gli ha dato molto fastidio che poi hanno scelto di rinnegare sulla base di valori come onestà e lealtà e professionalità che ogni tanto tirano fuori dal forno.

Ultimamente sento spesso ripetere a clienti ed amatori ma anche a professionisti e addetti ai lavori la stessa frase: “rendetevi conto che è solo pizza, non salva vite!

Senza dubbio.

Ma le rovina, le vite. Questo è sicuro.

E chi avrebbe mai pensato che acqua e farina sarebbero state la squadra fortissima degli anni 2000? Che i pizzaioli fossero i gold members di una società che porge più attenzione al racconto, all’idea degli ostacoli più che alla difficoltà vera di sentirsi adeguati, di svolgere serenamente e seriamente una professione.

Non prendiamoci in giro, dai.

Dall’inizio dei tempi gli esseri umani - senza che un reel glielo spiegasse - hanno capito l’importanza dei carboidrati, hanno saputo trovare modi per cuocerli - forse spostandoli dalla fiamma a volte- e hanno saputo abbinarli alla natura disponibile - senza master in “stagionalità e territorio”.

Fare la pizza è un concetto così elementare, che abbiamo riscoperto essere alla portata di tanti - di tutti oserei dire - se solo se ne ha voglia. Acqua e farina sono andate a unirsi sempre, dappertutto, in ogni angolo della Terra dando forma e consistenza alle più svariate varianti di lievitati semplici per il basilare sostentamento.

I pizzaioli erano figure lavorative marginali, ragazzi “costretti” a darsi alla professione per essere salvati dalla strada, uomini che si erano ritrovati a impastare per diretta discendenza, persone messe al banco pur di potersi ricavare un posto in una società che li aveva ghettizzati.

Intendiamoci: onore a questo mestiere, che è fatica pura e ruba il tempo migliore a chi lo fa, e onore a chi è riuscito a restituirgli dignità ma resta un impegno come tanti altri.

Lo sperimentare condimenti spettacolari è cosa di pochi, certo, ed è per questo che il talento non si costruisce come la costanza; ma il lavoro serio dà sempre frutti, ed è per questo che la caparbietà non si distrugge come il successo.

Stacchiamoli sti riflettori, su! Che il caro energia pesa per tutti.

In pochi anni siamo riusciti a togliere alla pizza tutta la sua purezza, siamo riusciti a renderla il gettone di scambio per vendere l’anima alla vanità. Non le abbiamo reso nessuna giustizia alla pizza, piuttosto abbiamo fatto sì che diventasse carnefice di se stessa.

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