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Il concetto di “buono”: una questione di chimica

Agricoltura e tecnologia: i nostri sensi, il cibo e la chimica che c’è dentro

Il concetto di “buono”: una questione di chimica

Pensiamo comunemente che, per alimentarci in modo sano e con gusto, i nostri cibi dovrebbero essere preservati dalle manipolazioni. In realtà, chi coltiva la terra, alleva animali o trasforma prodotti alimentari, sia in ambito industriale che nella ristorazione, si affanna da sempre, come può, per migliorare i risultati del proprio lavoro, utilizzando - più o meno consapevolmente - tecniche che hanno a che fare con la chimica.  

A pensarci bene, l’uso della chimica nella filiera “dal campo alla tavola” è un po’ come il ricorso al debito. Sarebbe bello se si potesse far a meno di entrambi. Purtroppo però raramente le aziende riescono a far fronte agli investimenti necessari per sviluppare il loro business senza ricorrere a supporti finanziari esterni. E anche le famiglie sono spesso costrette ad indebitarsi, quando devono affrontare spese importanti.

Allo stesso modo, se vogliono essere competitive, le aziende agricole, le industrie alimentari e anche le imprese di ristorazione non possono non tener conto dei principi e delle conseguenze della chimica (e della biochimica e della genetica) sulle loro attività.

Non è l’unico parallelo esistente fra le due questioni, perché così come esistono modalità di indebitamento pericolose, come quelle proposte dagli strozzini, ci sono usi altrettanto dannosi della chimica, come quelli derivanti dall’uso di additivi illeciti.

Per rimanere nell’ambito della legalità, sappiamo infine che non tutti i debiti sono uguali: ci sono quelli “buoni”, necessari per favorire la crescita, e ci sono quelli “cattivi”, che servono solo a farsi passare uno sfizio. Un conto è, per esempio, se una famiglia chiede un prestito per ristrutturare il proprio appartamento o per mandare un figlio all’Università; altro è se si indebita per comprarsi un’auto di lusso. Allo stesso modo, la chimica può aiutare a raggiungere risultati molto diversi, che si possono raggruppare in due grandi categorie:

A. Aumentare le rese, abbassare i costi di produzione, rendere i prodotti esteticamente più attraenti oppure aumentarne la resistenza o la conservabilità;

B. Migliorare la qualità intrinseca dei prodotti, dal punto di vista organolettico, nutrizionale o della sicurezza alimentare.

La ricerca si è molto impegnata, nei decenni scorsi, sugli obiettivi di tipo A. La conseguenza è stata che, a fronte di rese più alte, maggior durata, costi minori e assenza di imperfezioni visive, si è registrata una progressiva diminuzione del gradimento del pubblico verso i prodotti ottenuti con l’ausilio di quel tipo di chimica.

L’esempio migliore viene da frutta e verdura vendute attraverso le grandi piattaforme della distribuzione moderna, nelle quali il consumatore finale avverte ormai in modo sempre più marcato un difetto tutt’altro che trascurabile: i gusti di questi prodotti sono “piatti”, sempre più lontani da quelli dei prodotti acquistati direttamente dal contadino o anche dal fruttivendolo del rione (dove esiste ancora).

È per questo che la ricerca scientifica si sta spostando ora sugli obiettivi di tipo B, ben sapendo che la causa fondamentale del gusto di qualsiasi prodotto alimentare è proprio la sua composizione chimica.

Fino ad oggi, i soli parametri chimici presi in considerazione per definire e prevedere la gradevolezza gustativa di un prodotto agricolo erano essenzialmente due, o al massimo tre: la dolcezza e l’acidità (e il rapporto fra questi due fattori), ed eventualmente (ma in modo generico e molto meno definibile e misurabile) l’umami, che ha a che fare con la complessità della percezione sensoriale.

I risultati di un recentissimo studio (“Metabolomic selection for enhanced fruit flavor”) pubblicato da alcuni ricercatori dell’Università della Florida sulla rivista dell’Accademia Nazionale delle Scienze USA dimostrano che in realtà solo il 40-50% della preferenza del consumatore verso un pomodoro o un mirtillo è dovuto a dolcezza e acidità. Di tutto il resto è responsabile la maggior o minor presenza di decine e decine di VOC – composti organici volatili (cioè sostanze aromatiche effimere, che si modificano o si disperdono facilmente), che interagiscono fra loro e sono percepibili con i ricettori dell’olfatto, anziché con quelli della lingua. Mentre si è scoperto che nei lamponi, per esempio, c'è un unico composto responsabile del “gusto lampone”, il livello di gradimento organolettico di tanti altri frutti e verdure è il prodotto della complicatissima interazione tra sostanze volatili diverse: quelle che le piante producono naturalmente per richiamare gli insetti, gli uccelli e tutti quegli altri animali attraverso i quali esse si assicurano la diffusione dei semi e quindi la sopravvivenza della propria specie.

Nelle due figure successive sono elencati e messi in relazione fra loro i VOC presenti nel pomodoro (ben 65) e nel mirtillo (55), colorati a seconda della loro natura chimica: 4 diverse famiglie per il pomodoro e 5 per il mirtillo. Per capire l’effetto finale di ognuna di queste interazioni, le diverse combinazioni fra queste sostanze sono state sottoposte ad un panel di assaggiatori esperti, per misurare in modo qualitativo e quantitativo i risultati ottenuti dal punto di vista organolettico.

Il concetto di “buono”: una questione di chimica

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Il concetto di “buono”: una questione di chimica

La dimensione dei singoli pallini indica la maggior o minore “centralità” di ogni composto, ovvero la frequenza con cui esso entra in relazione con gli altri per produrre effetti apprezzabili su gusto e aroma, mentre lo spessore delle linee che congiungono due sostanze è un indice del livello di correlazione esistente fra loro.

Nella figura successiva sono infine sintetizzati i risultati sensoriali ottenuti, sia per il pomodoro che per il mirtillo, in modo da evidenziare qual è il “peso” di ognuna delle famiglie di composti esaminati sul gradimento complessivo del prodotto e sulla intensità della sensazione acida, della dolcezza e dell’aromaticità.

Il concetto di “buono”: una questione di chimica

Prendendo in esame i risultati ottenuti per il pomodoro, si scopre così che:

  • zuccheri e acidi sono responsabili solo per il 52% del giudizio sensoriale complessivo: per il 77% della sensazione di acidità, ma solo per il 31% dell’intensità aromatica e per il 37% della sensazione di dolcezza;
  • un ruolo molto più importante del previsto è giocato dai composti organici volatili derivati della fenilalanina (un aminoacido essenziale che è il principale costituente dell’aspartame, uno fra i dolcificanti più diffusi) e da quelli derivati dai lipidi.  

Nei mirtilli il “peso” di zuccheri e acidi è addirittura inferiore (40%), con un peso notevole di altre due categorie di VOC: i carotenoidi e i terpeni.

Bisogna ora considerare che ognuna di queste sostanze è frutto di una specifica informazione genetica posseduta dalla pianta. Gli agricoltori sanno bene che, stagione dopo stagione, una pianta può essere indotta ad accrescere o reprimere una certa caratteristica dei suoi frutti attraverso tecniche agronomiche diverse: incroci, innesti, impollinazioni artificiali e altro.

Ma mentre per un piccolo produttore nostrano è relativamente semplice lavorare (anche per tentativi) al miglioramento delle caratteristiche macroscopiche dei suoi prodotti (colore, contenuto zuccherino, acidità, dimensione, presenza di semi, spessore della buccia), senza bisogno di supporti esterni per verificare i risultati ottenuti, tutto per lui diverrebbe maledettamente più complicato e costoso se il suo obiettivo fosse quello di far aumentare uno o più dei micro-componenti individuati a livello di laboratorio come responsabili del quadro aromatico del prodotto.

Perché? Non solo perché non avrebbe la più pallida idea di come indurre le proprie piante ad aumentare il contenuto di quelle sostanze, ma anche perché ogni singolo tentativo di ibridazione della pianta non potrebbe essere verificato da lui stesso, ma avrebbe continuamente bisogno del contributo di un centro di ricerca specializzato e di un panel di assaggiatori professionali.

Risultato: con i potenti strumenti tecnologici oggi disponibili, primi fra tutti l’Intelligenza Artificiale e le tecniche di Machine Learning, i grandi produttori nordeuropei o americani saranno presto in condizione di sviluppare programmi mirati di miglioramento genetico, con i quali potranno programmare con precisione gli attributi di sapore ideali di un prodotto, profilandone dettagliatamente la composizione chimica e tenendo persino conto delle variabili di tipo etnico, geografico e demografico che possono condizionare la risposta dei panel sensoriali utilizzati, in modo da “specializzare” le proprie produzioni in funzione dei diversi mercati di sbocco.

Sarebbero guai seri per i nostri piccoli produttori di eccellenze. Il San Marzano, il Pachino, il Piennolo e tante altre grandi eccellenze dell’agroindustria italiana potrebbero rischiare grosso, se tutti noi non la smetteremo di considerare la chimica un tabù “a prescindere”, come diceva Totò.

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