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Razzismo: una pizza napoletana necessita di un pizzaiolo napoletano?

Arti e professioni necessitano solo di mestiere e passione.

Razzismo: una pizza napoletana necessita di un pizzaiolo napoletano?

Da qualche giorno c’è una frase che mi risuona insistentemente nella testa: “non diventare ciò che ti hanno fatto”.

Si è scatenato tutto leggendo un post di Nanni Arbellini che ha riportato una recensione che accusava il modello Pizzium: secondo il cliente infatti la catena di pizzeria presente oramai in tutta Italia che basa il suo prodotto sulla tecnica tipica napoletana non sarebbe tale, “piuttosto da definirsi interrazziale”.

Razzismo: una pizza napoletana necessita di un pizzaiolo napoletano?

Nonostante questa "precisazione" possa essere definita imbarazzate per il suo sgarbo e per il preconcetto che porta insito, non ci sarebbe stato altro da aggiungere alla precisa risposta che ha come sempre messo le cose in chiaro con educazione e coerenza.

Nanni scrive:

"La pizzeria è tutto tranne che Napoletana.
Spesso si esprime questa considerazione perché in pizzeria si vedono Pizzaioli di colore o con tratti somatici con un’altra unicità.
Io credo che non ci si possa più permettere questa ignoranza in Italia nel 2022, questo razzismo becero, povero, imbarazzante.
Napoli e la napoletanitá ci insegnano che siamo la culla dei popoli, dell’unicità, dell’ospitalità.
E poi professionalmente non c’è discorso che tenga, la serietà non ha appartenza geografica: puoi essere di Napoli, di Milano, di New York, di Londra o di qualsiasi altra parte del mondo. Il tuo paese di provenienza non fa la tua serietà, la tua professionalitá.
Questa è la nostra mentalità, prima personale e poi aziendale, e condanniamo chiunque la pensa diversamente, che viene puntualmente accolto all’interno delle nostre pizzerie.
Imparate a stare al mondo.”

Quello che proprio mi ha turbata è stato leggere commenti di persone - magari napoletani e pizzaioli - che hanno avuto da ridire sullo stesso (pre)concetto insinuando che “ci vuole un napoletano per fare la pizza” o addirittura che sia “inopportuno lavorare con stranieri”.

Ma davvero? Nel 2022? In un paese che più di tanti altri dovrebbe avere chiari dei valori come collaborazione, scambio culturale, capacità di reinventarsi?

Insomma per l’ennesima volta non è stata colta l’occasione di restare in silenzio ma soprattutto si è sfuggiti al punto principale:

da dove viene la malsana idea che il posto da cui vieni identifichi ciò che sai fare?

Che poi proprio da un napoletano non posso aspettarmelo un qualcosa del genere, perché sono i primi ad aver subito una discriminazione costante su due fronti: l’etichetta di “inadatti al lavoro” proprio su alla base della loro provenienza ma anche la svalutazione delle proprie capacità venendo marchiati come pizzaioli spesso in senso del tutto negativo, legandolo all’idea di un mestiere povero, di nicchia, fuori dai riflettori, che sia solo meccanico e dunque in metta in moto la testa.

Dunque, già solo per queste ragioni mi domando perché l’esperienza non sia servita a migliorarsi nei modi di fare e pensare; ma quello che ancor di più mi chiedo è come sia possibile che in un ambiente come quello della pizza - popolare, contaminato e contaminante, al momento forse il settore più eclettico - possa esserci tanta intolleranza.

La pizza è un qualcosa che da sempre unisce nonostante le sue immense varianti, solo che invece di valorizzare quell’aggettivo seguente che ne indica la provenienza siamo riusciti piuttosto a renderlo marchio di una discordia che non ha senso.

Napoli è sempre stata la casa di tutti, ha ospitato popoli e fatto da centro culturale, ha saputo rubare senza togliere, ha saputo rendere propria una cucina che nasce da migliaia di influenze, è riuscita a dare forse tra i primi segnali forti del fatto che tradizione voglia dire memoria, non solo in senso di ripetizione fedele ma anche di esperienza personale, di tocchi che rendono personale piatti, ricette e ricordi. L’inclusività e sempre stato tratto distintivo di Napoli e dei suoi napoletani, lo stesso Maradona si innamorò non solo della squadra ma anche di una città che rappresentavano come nessuno i diseredati e il nuotare controcorrente per tutta la vita.

In cucina - in generale - dovrebbe prevalere l’apertura mentale, la predisposizione al nuovo, la curiosità, la voglia di miscelare sapori, culture e tradizioni, l’idea che legando cose diverse possa nascere qualcosa unico nella sua moltitudine. Eppure proprio in questo mondo - negli ultimi anni - assistiamo ad una guerra fatta di mancata accoglienza, marcata inaccettazione sia sul piano personale, che su quelli della professionalità e delle idee.

Esempi lampanti, su due piedi, ne sono Valerio Braschi

Razzismo: una pizza napoletana necessita di un pizzaiolo napoletano?
Valerio Braschi - Ristorante 1978 a Roma (Italia)- Lasagna in tubetto

che più prova - ovviamente con un forte tratto provocatorio ma funzionale - a internazionalizzare i piatti tipici ed a italianizzare quelli esotici e più si ritrova a scontrarsi con questa assurda indisponibilità all’idea di valorizzare di nuovo anche ciò che già riesce perché per dare sempre nuova vita, nuovo spirito bisogna semplicemente metterci le proprie idee.

Ma anche Dabiz Munoz

spostandoci fuori dal nostro BelPaesello, il The Best Chef 2021 che ha scelto di portare all'interno della sua cucina i piatti iconici della cultura gastronomica mondiale rimodulati e tradotti in linguaggio "diverxo".

Razzismo: una pizza napoletana necessita di un pizzaiolo napoletano?
David Muñoz - Diverxo in Madrid (Spagna) - Zuppa peruviana di Angulas in crema di granchio, tuorlo d'uovo e peperoncino.

Quello che ci sembra nuovo è solo ripetizione/rivisitazione, tributo di qualcosa che nella corsa sul cerchio ora è solo sul lato più lontano. E allora le cose che puoi realmente fare sono due:

1- fai solo bene il tuo lavoro;

2- fai provocazione.

La cucina deve sempre essere un piacere, un' esperienza, un arricchimento… altrimenti basterebbe il ragù la domenica a far parlare. Ed una società multirazziale è un arricchimento indiscutibilmente.

Con la cultura si impara a vivere insieme; si impara soprattutto che non siamo soli al mondo, che esistono altri popoli e altre tradizioni, altri modi di vivere che sono altrettanto validi dei nostri, altri popoli con cui condividiamo sapori e tecniche.

Avere persone, aziende, mentalità come quella di Nanni Arbellini e Pizzium che rendono finalmente reale, tastabile, percettibile l’esaltazione del prodotto e del suo artigiano non per show business, non per creare personaggi bensì per creare “le possibilità”. Possibilità di lavoro, di rivalsa, si miglioramento, di valorizzare dei giovani, un mestiere ed un prodotto che nasce per essere di tutti. È questo ciò che manca a Napoli ed al mondo della pizza: cogliere la possibilità di essere più di una cosa o di un chi, prendersi il riconoscimento di essere un perché e dunque il motivo di un movimento, la ragione di un cambiamento, la parte legante tra tutte le varie schiere di gourmet, gourmand, appassionati dilettanti, addetti ai lavori etc: la pizza unisce tutti.

Nessuno, certamente, pretende di poter piacere in assoluto ma il rispetto della dignità umana dovrebbe essere un qualcosa di imprescindibile. Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo è le intolleranze in generale.

Saranno anche questi tra i motivi dei tanti abbandoni dei posti di lavoro in ristorazione e della fatale mancanza di nuove leve?

Razzismo: una pizza napoletana necessita di un pizzaiolo napoletano?

Sarà forse il prodotto tra mole e modi di lavoro; la somma di intolleranze e discriminazioni basate su sesso, colore della pelle, provenienza, età; l’inesistente desiderio di realizzare a livello personale i propri dipendenti che rappresentano il biglietto da visita per il cliente ma soprattutto la vera risorsa che abbia un impatto reale e sulla crescita del progetto e sull’adeguarsi ad un mondo che come il palato supporta, ricorda, protegge, segnala e sprona.

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