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Seaspiracy: inseguendo la sostenibilità abbiamo reso la pesca insostenibile!

La pesca sostenibile non esiste. Il documentario Seaspiracy su Netflix lascia molti dubbi, facciamo chiarezza

Seaspiracy: inseguendo la sostenibilità abbiamo reso la pesca insostenibile!

Se ci chiedessero di immaginare qualcosa di immenso e di immutabile ci verrebbe spontaneo pensare agli oceani, a quegli spazi infiniti che abbiamo considerato finora come pozzi senza fondo, da cui poter attingere a piacimento e in cui poter scaricare qualsiasi cosa.

Con l’arrivo di Seaspiracy sulla piattaforma Netflix, all’improvviso abbiamo scoperto che le cose non stanno proprio così, e che anzi il contributo determinante che gli oceani hanno sempre dato alla nostra vita è ora a rischio, per diversi ordini di fattori.

Trailer Seaspiracy Netflix

Uno riguarda il plancton, quella miriade di organismi microscopici, animali e vegetali, che, oltre a rappresentare un nutrimento fondamentale per pesci e cetacei, producono attraverso la loro attività di fotosintesi circa la metà dell’ossigeno che respiriamo (l’altra metà è prodotta dalle foreste, che a loro volta non è che godano proprio di grande salute…). Il plancton è oggi sempre più minacciato dalla gigantesca quantità di rifiuti che quotidianamente finisce in mare e con la catena alimentare arriva fino a noi, col risultato che, secondo uno studio dell’Università australiana di Newcastle, commissionato dal WWF, ognuno di noi finisce per consumare mediamente ogni settimana 5 grammi di plastica, l’equivalente di una carta di credito.

Un altro fattore critico consiste nella oggettiva difficoltà di disporre di dati certi, che consentano di monitorare in modo preciso l‘evoluzione dei fenomeni nel tempo e di varare conseguentemente iniziative in grado di ridurre veramente i rischi (ammesso e non concesso che ce ne sia la volontà politica). Ciò sia per la vastità della superficie interessata (oltre i 2/3 del pianeta), sia per l’atteggiamento tutt’altro che collaborativo delle grandi multinazionali della pesca, sia ancora a causa della debolezza dei governi di molti dei Paesi più importanti per questo settore di attività, soprattutto in Africa e nel Sud-Est Asiatico.

Il tema su cui è maggiormente concentrata l’inchiesta di Seaspiracy è quello della insostenibilità della pesca e delle attività ad esse collegate.

Per tentare di capire come stanno effettivamente le cose, senza farsi condizionare più di tanto dagli eccessi scandalistici in cui spesso indulge il giornalismo d’inchiesta, conviene affidarsi alle informazioni fornite dalla FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite che pubblica periodicamente un rapporto sullo Stato della Pesca e dell’Acquacoltura Mondiale, conosciuto come SOFIA.

Secondo il report presentato nel 2020, questo settore dà lavoro in tutto il mondo a quasi 60 milioni di persone (di cui ben l’85% sono asiatici), con una flotta composta da 4,56 milioni di pescherecci, il 70% dei quali proviene dai Paesi asiatici.

La produzione ittica globale nel 2018, come mostra il grafico sottostante, è arrivata a 179 milioni di tonnellate, di cui 156 destinate al consumo umano. Poco più della metà deriva da catture in mare. Il resto, in fortissima crescita (81,2 milioni di ton), proviene da impianti di acquacoltura, terrestri e marini, settore in cui da 30 anni la Cina produce da sola più di tutti gli altri Paesi del mondo messi insieme. È interessante notare che, a fronte di un valore complessivo di prima vendita di 401 miliardi di dollari, ben 250 miliardi provengono proprio dal prodotto di acquacoltura, che, a differenza del pescato, gode del vantaggio di poter essere programmabile e di poter arrivare al consumatore finale con una filiera molto più corta, e quindi più remunerativa per il produttore primario.

Seaspiracy: inseguendo la sostenibilità abbiamo reso la pesca insostenibile!

Negli ultimi 60 anni il consumo mondiale di pesce è stato doppio rispetto alla crescita demografica, passando dai 9,0 kg pro capite del 1961 ai 20,5 kg. attuali. La stima della FAO è che nel 2030 la produzione ittica totale arriverà a 204 milioni di tonnellate, con un incremento del 15% rispetto al 2018 e con una ulteriore, forte crescita della quota dell'acquacoltura, portando il consumo annuo di pesce pro capite a 21,5 chilogrammi.

Il rapporto SOFIA 2020 conferma però che le attività di pesca e acquacoltura stanno diventando ogni anno sempre meno sostenibili: gli stock ittici pescati a livelli biologicamente incompatibili, che erano appena il 10% nel 1974, oggi sarebbero più di un terzo del totale, mentre stanno ormai definitivamente scomparendo a livello planetario, come illustrato nella figura di seguito, le aree in cui si pesca meno di quanto il mare potrebbe dare.

Seaspiracy: inseguendo la sostenibilità abbiamo reso la pesca insostenibile!

La dimensione della insostenibilità è molto diversa nelle diverse aree del pianeta. Mar Nero e Mediterraneo - che in realtà sono grandissimi laghi, e quindi possiedono un equilibrio molto più precario dei grandi oceani - presentano ben il 62,5% di sovra-sfruttamento, seguiti dal Pacifico sudorientale (54,5%) e dall’Atlantico sudoccidentale (53,3%), aree in cui è particolarmente elevata la pressione delle flotte cinese e giapponese: nel primo caso per evidenti ragioni di prossimità; nel secondo perché i mari prospicienti l’Africa non sono solo fra i più ricchi di pesce, ma sono anche i meno difesi dalle incursioni dei grandi e superattrezzati pescherecci provenienti dall’Oriente.

Un altro aspetto critico è che per ogni tre pesci catturati, uno non arriva nel piatto ma viene rigettato in mare o si deteriora prima che possa essere mangiato. Circa il 35% delle catture mondiali, infatti, si spreca a causa di pesche accessorie o rigetti, per lo più da pescherecci da traino, di pesci troppo piccoli o appartenenti a specie non commerciabili. Fra questi ci sono spesso anche squali e delfini, che dai pescatori di tonno sono considerate specie “concorrenti”, tanto da far diventare tristemente famosa la Baia di Taiji in Giappone (https://en.wikipedia.org/wiki/Taiji_dolphin_drive_hunt), dove i pescatori, per evitare che questi sottraggano cibo ai tonni (che rappresentano per loro un mercato di ben 42 mld/anno), costringono delfini ed altri cetacei ad entrare per ucciderli o per catturarli vivi allo scopo di rivenderli ai parchi acquatici.

Una quota importante delle perdite è dovuta alla mancanza di attrezzature di bordo adeguate, come strumenti di refrigerazione o di produzione del ghiaccio, necessari per mantenere fresco il pescato, e alle ingenti quantità di pesce selvatico utilizzato per produrre mangimi (farine e oli) per gli impianti di acquacoltura di pesci carnivori, come spigole, orate e salmoni. Per questo, al fine di ridurre al minimo le perdite derivanti dalla pesca intensiva, la FAO sta collaborando attivamente con le nazioni in via di sviluppo per incoraggiare l’uso di metodi di conservazione del prodotto. Attraverso l’essiccazione si è così ottenuta per esempio una riduzione del 50% delle perdite di pesce dal lago Tanganica in Africa ed anche nell'Oceano Indiano un miglior utilizzo delle strutture per la gestione della raccolta di granchi ha permesso di ridurre del 40% le perdite.

Ancora poco si fa per contenere l’impatto ambientale degli impianti di acquacoltura, che presentano invece numerose criticità soprattutto quando sono di tipo intensivo o semi-intensivo, sia in terra (vasche e impianti artificiali costieri) che in mare (gabbie e allevamenti di molluschi bivalvi in colonna d’acqua o su fondali liberi). Tali allevamenti producono infatti grandi quantità di reflui organici (feci, residui di cibo e altro), che possono causare gravi eutrofizzazioni dei fondali, ed utilizzano regolarmente quantità tutt’altro che trascurabili di antibiotici e antiparassitari, per prevenire epidemie, e di biocidi utilizzati come disinfettanti o come antivegetativi per le reti e gli impianti subacquei, in grado di trasmettersi nella catena alimentare e di modificare pericolosamente gli equilibri biologici circostanti. Tutto questo senza citare i gravi casi di inquinamento genetico che possono verificarsi quando esemplari in cattività, che sono sempre pre-selezionati in modo da presentare bassa aggressività e rapido accrescimento, sfuggono accidentalmente dagli allevamenti e si ibridano con soggetti selvatici o quando (caso ancora più grave) questo accade con specie alloctone, cioè originarie di altre aree del pianeta, le quali entrano in competizione con specie autoctone che occupano la stessa nicchia ecologica e finiscono per sopraffarle, come è accaduto per esempio con il famigerato pesce siluro nel Po.

Seaspiracy: inseguendo la sostenibilità abbiamo reso la pesca insostenibile!

Ci sono insomma davvero ancora molte, moltissime cose da fare, sia in mare che negli allevamenti, e soprattutto a livello di governi, perché per esempio è assurdo che il 46% dei rifiuti negli oceani sia costituito da reti e attrezzature da pesca perse o abbandonate in mare, è ridicolo il modo in cui oggi vengono rilasciate le certificazioni di pesca sostenibile (MSC - Marine Stewardship Council, Dolpin Safe e altre), senza che quasi mai a bordo dei pescherecci vi sia un ispettore che controlli le modalità di pesca, ed è inaccettabile che nessuno, in ambito politico, alzi un dito di fronte all’assoluta spregiudicatezza con cui le grandi navi da pesca (soprattutto cinesi) aggrediscono i fondali di mezzo mondo, soprattutto in Africa.

Quelli che pensano che il problema sia fondamentalmente ideologico e debba interessare solo gli ambientalisti si sbagliano di grosso, e sarebbe il caso che si ponessero alcune domande:

  • Come mai l’anisakis, il maledetto verme patogeno che in Giappone causa ogni anno qualcosa come 3.000 interventi chirurgici per l’asportazione di tratti di intestino e mezzo secolo fa non esisteva in Europa, è oggi talmente diffuso anche nel Mediterraneo da non consentire più il consumo di pesce crudo, se non è previamente abbattuto?
  • Avete un’idea di come sono alimentati e del modo barbaro in cui vivono i salmoni di allevamento? Volete avere un parere rigorosamente scientifico su quale sia il loro contenuto di coloranti artificiali e di sostanze tossiche non biodegradabili, come p. es. diossine, cadmio e pesticidi organo-clorurati? Non è facile, perché il Governo norvegese impegna enormi risorse economiche per contrastare la diffusione di queste informazioni, ma intanto provate a leggere qui.
  • Avete mai sentito parlare del pangasio, un pesce allevato per lo più nella inquinatissima regione vietnamita del Delta del Mekong, che fino a poco tempo fa compariva regolarmente nei menu delle nostre mense scolastiche e che ancora oggi è ancora offerto a prezzi bassissimi in molte catene di hard discount?
  • Sapevate che la FAO ha suddiviso l’intero pianeta in zone e sottozone di pesca omogenee, che il Mar Mediterraneo è la zona 37, che ha a sua volta 4 sottozone (Occidentale, Centrale, Orientale, Mar Nero), ciascuna con 2 o 3 sottodivisioni? E siete al corrente che una legge obbliga chi vende pesce a dichiararne chiaramente la tipologia, il nome scientifico, il metodo di cattura o d allevamento e la provenienza?
Seaspiracy: inseguendo la sostenibilità abbiamo reso la pesca insostenibile!

Si potrebbe continuare a lungo, ma si correrebbe il rischio di fare dell’allarmismo controproducente. Tre cose però sono certe: non solo che gli oceani non sono più quegli gli spazi infiniti che pensavamo, ma anche che è ora (purtroppo) di non usare più l’espressione “sano come un pesce” e che è indispensabile informarsi utilizzando fonti affidabili, perché mai come oggi conviene consumare meno, ma con più consapevolezza e puntando senza mezzi termini alla qualità.

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