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Sustanza, Napoli – il ristorante fine-dining di ScottoJonno apre le sue porte alla città

Visita da Sustanza - il ristorante fine-dining di ScottoJonno

Sustanza, Napoli – il ristorante fine-dining di ScottoJonno apre le sue porte alla città

Sustanza

Galleria Principe di Napoli - Via Broggia 7, Napoli  
Aperto tutti i giorni 19-22. Chiuso domenica e lunedì.
Tel: +39 0813795766
Mail: reservation@sustanzanapoli.com
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Prezzo: a la carte o tre percorsi degustazione da 80 €; 110 €; 140 €.
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Identità dei popoli e tradizione etnologica mediterranea nel locale dell’imprenditore Luca Iannuzzi, con il procidano Marco Ambrosino alla direzione della cucina.

IL LOCALE ED IL PROGETTO IMPRENDITORIALE

Scottojonno è un’intrapresa lungimirante ed ambiziosa, che ha l’indiscutibile merito di restituire alla città uno degli spazi più pregni del proprio retaggio storico-culturale: seicento metri quadrati in puro stile liberty, ubicati nel centro della città, nella riqualificata Galleria Principe di Napoli, uno spazio poli-funzionale che consta di un caffè letterario, un cocktail bar, una biblioteca diffusa, un bistrot ed un ristorante “gastronomico”.

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Sustanza ne rappresenta il fiore all’occhiello identitario, un luogo concepito, nel sostrato fondativo, come ristorante di avanguardia palingenetica ma anche come salotto di accoglienza:

aperto la scorsa estate, con il progressivo rifinimento dell’offerta ha ottenuto di recente la prestigiosa menzione nella guida Rossa, la Michelin, imprimatur e viatico delle sinergie professionali dispiegate.

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Splendide ed evocative le sale – un tempo appartenenti ai funzionari della tesoreria di stato, cui la struttura fu convertita per le sue caratteristiche– con suppellettili ed arredi d’epoca acquistati personalmente da Iannuzzi, appassionato esegeta della cultura partenopea, nonché scovatore di pezzi rari nei rigattieri di mezza Europa.

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Numerosi i pregnanti rimandi all’epoca originaria della belle epoque – risalenti al diciannovesimo secolo - con un progetto minuzioso di restauro conservativo dell’artista Eugenio Tibaldi, che ha selezionato pezzi d’antan per riconvertirli, una menzione a parte doverosa per i tomi esposti sulla storia di Napoli, facenti parte della collezione privata di Iannuzzi.

Ambrosino è dunque parte del collettivo mediterraneo, che,

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avvalendosi dell’apporto sinergico di più colleghi aderenti , conferisce alla cucina forti valenze epistemologiche e militanti, collocandola come vera e propria scienza sociale, dotata di un proprio manifesto programmatico.

Le tecniche dell’executive chef affondano dunque le proprie origini nelle usanze di un’ampia zona geografica che si estende sino al Nord-africa e finanche all’Asia, introducendo colature e garum, fermentazioni e maturazioni, composte e kombucha, contaminando ed a volte destrutturando, in un diuturno equilibrio di rimandi e giustapposizioni.

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Dunque verdure, pesce, carne, crostacei, frutta, ma anche pigne, incenso, edera, sambuco, argan, in un gioco sinestetico e sensoriale: la crew di cucina dà ampio risalto ai cosiddetti “ingredienti talismano”, espressione di paesaggi, sineddoche di una identità locale o di un’emozione, come ad esempio il lentischio o il pino marittimo,

capace di riprodurre ed evocare “l’odore di una mareggiata”, mutuando le parole di Ambrosino.

Una doverosa menzione alla crew di sala e cucina, con Marco Ambrosino come executive chef, Domenico Cerrone nella qualità di sous-chef, pastry chef Federico Andreini, sommelier Davide Cozzolino, per un’età media ben al di sotto dei trent’anni.

IL MENU’ ED IL WINE TASTING

Tre i menù degustazione – da cinque, otto e dieci portate, denominati icasticamente “piccolo cabotaggio, medio raggio e lungo corso” – variabili a cadenza bimestrale, elevata la capacità di improvvisare “a braccio” da parte dello chef. Significativa la possibilità di concordare pairing enologici al calice, grandissima preminenza di prodotti da agricoltura biologica e biodinamica, con frequenti incursioni della miscelazione, per il tramite di cocktail preparati al tavolo da ingredienti home-made.

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Partendo dagli amous-bouche “bietola al miso e olive, foglia di radicchio rossa stagionata in aceto di mele con crema di arachidi, macaron al burro alle acciughe, limone bruciato, e cialda al carpione, burro fermentato”, danubio home-made, interessante la teoria gustativa, con acidità sorrette da una bella tensione palatale. In pairing, il vermouth cocktail Levante di Controcorrente, con bitter aromatico home-made, assenzio ed artemisia, noti amaricante che fungono da perfetto viatico al prosieguo della degustazione.

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Si prosegue con il consommè, brodo di pane e verdure fermentate, che precede uno dei signature-dish dello chef, il “carciofo alla brace, tartufo nero, olive, cucunci, bitter contadino”: di rimando, ancora sovviene la miscelazione, con una tequila, infusione di carciofo alla brace e soda home-made, un omaggio ad un’antica tradizione londinese, ove il mollusco viene allevato sulle rive del Tamigi.

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Il piatto successivo è una rasoiata di acidità e umami, “ostrica di Bretagna alla brace glassata con lievito esausto, salsa di orzo, tè rosso africano ed olio di argan”; forse l’abbinamento più emozionante e sorprendente della serata, con il sakè Hatsumago Densho, che ben riesce a contrastare la nota amaricante della preparazione.

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La composizione del tris “terrina con pancia di palamita in tartare, salsa al vino bianco e erba cipollina - ritagli di alletterato con mayonese al miso di pinoli - focaccia al cavolo nero con prosciutto di coda di tonnetto alletterato e misticanza” evidenzia la connessione teoretica dello chef con l’idea del pescato sostenibile e di stagione, forse il Valtiberia Vino Bianco Frizzante di Podere Sottoilnoce – metodo ancestrale emiliano – non riesce a sostenere la complessità della portata, pur apprezzandone la tensione acida , conferita dal vitigno autoctono.

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La “trottola del Pastificio dei Campi cotta in brodo di lische, con aglio bruciato, spuma di alghe, polline e alici marinate, salsa di pane e zafferano” viene guarnita con una salsa al finocchio fermentato ed olio al dragoncello, e rimanda alla boullabaisse alla Marsigliese: in pairing il Coda di Volpe Bianco I.G.T. 2020 dell’azienda irpina Cantina di Enza, riscoperta di un antico vitigno locale semi-estinto.

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La leccia stella viene servita con “garum della propria pelle in oliocottura, lenticchie e cedro cotto alla brace, verza al chimichurry e olio all’aneto”, interessante la nota vegetale, in pairing lo Schioppettino D.O.C. di Marco Sara del 2021, al naso pepe nero, ribes e lamponi, davvero valido.

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Ultima portata, “l’agnello cotto nel mirto, tzatziki di mandorle, panekosho, salagioni di agnello e pecora, pickles, erbe alla griglia, focaccia al carbone con ragù di ritagli” è forse eccessivamente succulenta e corposa, meriterebbe un lavoro di destrutturazione, onde apprezzarne al meglio la complessità.

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Concludiamo con il reparto dessert, serviti personalmente dal pastry chef Andreini, non prima di aver assaggiato il pre-dessert “sorbetto alla radice Angelica con sale e olio al Mirto”, un calibrato azzeramento del palato che precede l’eccellente “cardo pocheè, miele e cedro ossidato, sorgo tostato, incenso e cera d’api”, .

L’idromiele è dedicato all’antica ricetta dei popoli in cammino, vero e proprio manifesto programmatico liquido, e la bevanda frizzante invecchiata in anfora viene servita su di un gelato al burro affumicato, cacomela e koji di fagioli tostati: gran chiusura riservata alla piccola pasticceria, su cui spicca la “caramella gommosa al fico d’India e tabacco alla Pipa”, omaggio alla Campania, e la “meringa di lattuga di mare, con burro di mela cotogna”, ennesimo rimando ad una coordinata ideale, che nella mani sapienti dello chef Ambrosino e dei suoi collaboratori, diventa luogo dell’anima, dal quale è impossibile rifuggire.

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