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ALLEVATORI DI BUFALE CASERTANI IN RIVOLTA: COME (NON) SI GESTISCE UNA EMERGENZA SANITARIA

Protesta Allevatori Bufale Casertani, allarme brucellosi e tbc

ALLEVATORI DI BUFALE CASERTANI IN RIVOLTA: COME (NON) SI GESTISCE UNA EMERGENZA SANITARIA

Hanno dovuto ricorrere allo sciopero della fame e minacciato di portare in piazza la loro mobilitazione. Solo così gli allevatori bufalini casertani sono riusciti a farsi ascoltare dalla Regione Campania ed a rappresentare la loro profonda insoddisfazione per il modo in cui stanno svolgendo la operazioni di contrasto dei focolai d’infezione che affliggono da tempo alcuni allevamenti bufalini di quella provincia.

Con il Covid siamo ormai bombardati tutti i santi giorni dalle informazioni su cosa sia e su come si possa arginare una epidemia fra gli umani, ma non sono in tanti ad avere un’idea di cosa è e di quali danni può fare una malattia infettiva si diffonde negli allevamenti.

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Per fortuna, non tutte le malattie infettive che interessano il mondo animale possono classificarsi come zoonosi, cioè come malattie in grado di infettare direttamente o indirettamente anche l’uomo. Ma anche quando non presentano questi rischi, le epidemie negli allevamenti costituiscono comunque una grave minaccia, soprattutto economica, per le imprese zootecniche.

La peste suina africana, per esempio, non rappresenta un rischio per la salute umana, ma è un disastro per chi alleva maiali destinati alla produzione di prosciutti e salumi, che da un giorno all’altro si trovano bloccate le esportazioni verso i mercati esteri, come sta avvenendo oggi nella filiera suinicola italiana, a seguito della scoperta di alcuni capi infetti fra i cinghiali selvatici che scorrazzano fra Piemonte e Liguria.

Non è una zoonosi neanche la febbre catarrale degli ovini, meglio nota come blue tongue (lingua blu), che periodicamente affligge la commercializzazione dei formaggi di pecora prodotti in Sardegna.

Sono classificate invece come vere e proprie zoonosi due malattie che da tempo affliggono gli allevamenti bufalini di alcuni territori della Provincia di Caserta: la brucellosi e la TBC. Per entrambe esiste infatti la teorica possibilità che gli operatori si contagino attraverso il contatto diretto con materiali biologici provenienti da animali infetti. L’infezione potrebbe teoricamente trasmettersi anche per via alimentare, con il consumo di latte o prodotti lattiero caseari, ma solo se - e non è certo il caso della mozzarella, che per essere filata deve essere portata a temperature superiori ai 90°C - il latte non viene sottoposto a trattamenti termici adeguati.

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L’Unione Europea ha adottato da tempo, nei confronti di tutti questi rischi, un atteggiamento molto più rigoroso di altri Paesi, a cominciare dagli USA, dove ci si limita solo a raccomandare di pastorizzare il latte prima del consumo o di qualsiasi trasformazione. L’UE ha quindi stabilito che i focolai d’infezione rilevati dalle attività routinarie di monitoraggio sanitario sul campo debbano essere sempre e comunque eradicati. Tutto questo dovrebbe però avvenire in un clima di piena collaborazione fra le istituzioni, a cui spetta il compito di programmare e supportare tecnicamente le operazioni, e gli allevatori, a cui dovrebbe essere affidato il compito fondamentale di autocontrollare sistematicamente, nel proprio interesse, l’evolversi della situazione. Tutto il contrario di quello che purtroppo sta avvenendo in Campania.

Le strategie per debellare i focolai d’infezione sono sostanzialmente due.

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La prima, più lunga e complicata, consiste nello sviluppo e nella sperimentazione sul campo di vaccini ad hoc (che, ad esempio, per la peste suina a tutt’oggi non esistono) e nella successiva implementazione di campagne vaccinali, da eseguirsi con approccio scientifico rigoroso.

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Gli ostacoli principali che rendono complessa questa soluzione sono diversi:

  • lo scarso interesse delle industrie farmaceutiche ad investire nella messa a punto di vaccini realmente efficaci, che avrebbero quindi bisogno di ingenti finanziamenti pubblici per rendere economicamente sostenibili i costi della ricerca;
  • la complessità delle tante precauzioni di ordine igienico, sanitario, ambientale ed organizzativo che devono essere adottate per isolare, monitorare e rimettere finalmente in produzione gli animali vaccinati, prevenendo nel frattempo tutte le possibili re-infezioni;
  • le negative ricadute commerciali che una lunga campagna di vaccinazione potrebbe comportare, tanto sul latte o sulle carni provenienti dagli allevamenti interessati che, più in generale, sui prodotti trasformati ottenuti da quelle materie prime.

La seconda strada, più semplice e sbrigativa ma anche molto più traumatica, consiste nell’abbattimento degli animali infetti. È questa la soluzione adottata dalla Regione Campania per eradicare i focolai presenti da tempo negli allevamenti bufalini di alcune aree del Casertano.

Questa scelta, presa a seguito del fallimento di precedenti tentativi di intervenire attraverso campagne vaccinali, sta scatenando forti reazioni fra gli allevatori, ai quali sono riconosciuti indennizzi per l’abbattimento che si rivelano però inadeguati a consentire il ripristino in tempi brevi delle mandrie perdute e dei rapporti commerciali con le aziende di trasformazione clienti.

Le motivazioni della protesta degli allevatori sono tante: tutte comprensibili, e molte anche condivisibili.

La prima, la più importante di tutte, è la grande sproporzione fra il numero dei capi abbattuti e quello degli animali in cui, dopo macellazione, viene confermato il sospetto d’infezione. È vero che non sempre l’esame batteriologico sui tessuti dell’animale macellato è in grado di rilevare la presenza dell’agente patogeno, ma di sicuro è inaccettabile che si proceda all’abbattimento quando non vi è certezza assoluta che un capo sia realmente infetto.

Secondo le stime degli allevatori, il numero dei capi finora abbattuti sarebbe addirittura superiore alle 100.000 unità, e solo sull’1,4% di questi sarebbe poi stata confermata la presenza dell’infezione. Sono numeri impressionanti, che rendono plausibile la preoccupazione che, di questo passo, l’intero patrimonio bufalino di questi territori possa essere messo a rischio. La Regione Campania smentisce che questi dati siano reali, ma lo fa senza preoccuparsi di fornire i propri.

Come se non bastasse, dalla Regione non arrivano neppure informazioni sul destino dei fondi stanziati per indennizzare gli allevatori. Secondo questi ultimi, la quota per singolo capo si aggirerebbe fra i 7-8.000 €, di cui solo il 20% arriverebbe agli allevatori. E il resto? Come mai nessuno in Regione sente il bisogno di chiarire qual è l’entità di questi indennizzi e chi sono i beneficiari finali di questi fondi pubblici? E come mai le principali organizzazioni professionali del mondo agricolo tacciono su questi argomenti, alimentando così il sospetto che il loro silenzio possa essere in qualche modo interessato?

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Ci sono tante altre domande a cui la Regione Campania dovrebbe sentire l’esigenza di dare risposte circostanziate: perché su questo problema non si assegnano agli allevatori quei ruoli di autocontrollo a cui la legge obbliga tutti gli operatori delle filiere alimentari, in modo da consentirgli di collaborare attivamente con le istituzioni? perché sull’argomento non si fa chiarezza e si definiscono una volta per tutte quali sono le competenze e le responsabilità degli Assessorati alla Sanità e all’Agricoltura? perché non si avverte la necessità di avviare studi specifici sulla epidemiologia di queste malattie e sulla fisiologia della bufala, anziché continuare a fare genericamente riferimento ai bovini, quando si tratta di definire delle scelte così importanti?

La madre di tutti i problemi sembra insomma la mancanza di trasparenza, che sarebbe invece la prima condizione per placare gli animi e creare un clima di reale collaborazione fra istituzioni e imprese zootecniche, anche al fine di evitare che altri danni, e ancora maggiori, si facciano all’immagine commerciale della Mozzarella di Bufala Campana, prima DOP del Mezzogiorno.

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