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Cocktail Low e No Alcol: esplode la moda dei cocktail alcol free

MENO SPIRIT, PIÙ GUSTO. ESPLODE LA MODA DEI COCKTAIL ALCOL FREE.

Cocktail Low e No Alcol: esplode la moda dei cocktail alcol free

NoLow Cocktail  

Cosa definisce un cocktail, e quindi la sua versione analcolica

C’è un vecchio scherzo che viene proposto agli studenti delle scuole di barman quando cominciano i primi corsi. Alla domanda “qual è il cocktail più bevuto al mondo?” viene infatti risposto “il cappuccino”.

Se ovviamente la risposta mira a sorprendere, non è per questo da reputarsi inesatta. Partendo infatti dal presupposto che il cocktail sia una bevanda ottenuta tramite una miscela proporzionata ed equilibrata di diversi liquidi, il cappuccino può a tutti gli effetti essere reputato come un cocktail analcolico caldo, a base di due ingredienti (latte e caffè). Ma al di là della pura provocazione, nessuno di noi classificherebbe seriamente il cappuccino tra i cocktail. lo leggerebbe come tale nelle abitudini di consumo quotidiane, e La domanda è: perché?

Per avere un cocktail non basta l’unione di due liquidi, serve un contesto, una tecnica, una manualità, che non sono quelli del barista diurno, ma quelli del bartender. Se queste prime righe paiono declamare qualcosa di scontato, il motivo è che la mente di ognuno di noi sta applicando questi criteri al mondo dei cocktail alcolici, per i quali il percepito di qualità negli ultimi anni si è alzato in maniera importante, mentre ancora nella mente dei più la categoria degli analcolici resta legata a un concetto di prodotto commodity, relegato a guidatori e donne incinte, e solitamente a base di succhi e sciroppi dolci. Invece in maniera silenziosa anche questo settore sta subendo la propria rivoluzione, in un progressivo crescendo tecnico, di ingredientistica e di richiesta da parte dei clienti.

Cocktail Low e No Alcol: esplode la moda dei cocktail alcol free

Primi cenni storici e ricette

Una di quelle regole ferree che di solito si utilizzano per l’abbinamento di mondi intrinsecamente diversi (ad esempio vino e cibo per il pairing, oppure, come in questo caso, alcolici ed analcolici) è quella che stabilisce che si possa scegliere di agire “per similitudine o per contrasto”. I Cocktail analcolici affondano le proprie radici storiche proprio seguendo questi due filoni principali: per assomigliare alle più famose bevute e dare un valido sostituto a chi non può approfittarne, oppure per contrastarne la diffusione e bloccare la crescita del settore. Se andiamo a guardare i ricettari storici, infatti, quasi tutti contengono qualcheaccenno a delle bevande o a degli sciroppi, ma senza particolari attenzioni, più come complemento d’informazione che come elemento indipendente.

Paradossalmente è proprio il proibizionismo ad incentivare la nascita di ricettari e spazi pubblici dedicati ai drink analcolici ed alla loro diffusione.

Tra fine dell’800 e l’inizio del 900 infatti la guerra all’alcolismo, soprattutto nei paesi anglofoni ha provocato la nascita delle più disparate tipologie di soluzioni per riportare la rettitudine nelle abitudini dei consumatori, come ad esempio i Gin Acts emanati dal governo in Inghilterra tra il 1729 e il 1751 per cercare di limitare il consumo di gin tra le classi operaie. Se è celebre il proibizionismo americano, terminato solo nel 1933, già prima le iniziative in questo senso si erano fatte sempre più numerose e non solo negli Stati Uniti.

Anche se ormai pare essersene persa la memoria storica, in Inghilterra tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si affermarono infatti i così detti “Temperance Bar” (traducibile comebar della temperanza, sinonimo all’epoca di sobrietà, moderazione), noti anche comeAlcohol-free Bar, Sober Bar o Dry Bar.

Questa tipologia di locali non serviva infatti bevande alcoliche, ed è proprio in posti come questi che si svilupparono molte ricette di Mocktail (parola che nasce dall’unione di Mock, ovvero “fare il verso” e ovviamente Cocktail), oltre ad essere terreno per lo sviluppo delle bevande sodate, come ad esempio Coca Cola (che vide in questi bar il suo primo mercato europeo) e per bibite meno conosciute come Cream Soda, Dandelion and Burdock e Sarsaparilla.

Questi locali, anche grazie al sostegno di alcuni gruppi religiosi come i Metodisti, ebbero un grande sviluppo e popolarità all’epoca, e diventarono simbolo di uno stile di vita. Se tutto questo vi sembra parte di un passato lontano, può essere interessante scoprire che il Fitzpatrick Herbal Health a Rawtenstall, uno dei primi ed originali “temperance bar”, è sopravvissuto fino ad oggi. Questo locale del Lancashire, primogenito di una realtà che nel suo momento di massimo splendore era arrivata a contare ben ventiquattro negozi a conduzione familiare in tutta la regione, proponeva (e propone) bevande analcoliche, rimedi erboristici e bottiglie di cordiali.

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La codifica delle ricette

Se già questi movimenti cominciarono a gettare le basi per una codifica di alcune ricette entrate poi nella memoria collettiva (ad esempio, è degli anni intorno al 1920 la nascita del Pussyfoot, di cui parleremo più avanti, Mocktail che deve il suo nome a William E. Johnson, famoso attivista contro l’alcool, soprannominato Pussyfoot per via della sua felina furtività durante le indagini che svolgeva nel proibizionismo in Oklahoma), dobbiamo aspettare il secondo ricettario dell’IBA (International Bartender Association), l’ente internazionale che si occupa della codifica dei Cocktail, per avere un primo tentativo strutturato di chiarezza in merito a quelli che all’epoca erano chiamati “Virgin Cocktail”, come ci racconta Giorgio Fadda, presidente dell’associazione a livello mondiale: «I Cocktail analcolici che entrarono in quell’edizione furono il “Florida”, a base di succo di limone, succo di arancia, granatina; il“Preloister”, che risulta a tutt’oggi interessante come ricetta per la sua particolarità, in quanto è più rilevante come drink energetico che come semplice analcolico, creato con il rosso d’uovo, ketchup, Worcester sauce, aceto, sale e sale di sedano. Poi c’era il “Pussyfoot” con ilrosso d’uovo, succo di limone, succo d’arancia e granatina, e forse quello che più di tutti si è affermato nell’immaginario generale, ovvero il famoso “Shirley Temple”».

«Queste ricette, continua Fadda, sono rimaste anche nel ricettario successivo, che era quello di Vienna del 1993, ad eccezion fatta del Preloister, sostituito invece dal “Parsons Special”».

Questa formazione fu confermata anche nel quarto ricettario IBA ufficiale, quello di Las Vegas, per poi scomparire nei due ultimi usciti (il quinto ed il sesto del 2011 e del 2021).

Non c’è un motivo particolare per l’eliminazione dei Mocktail dai ricettari IBA, tranne forse quello che potremmo definire lo Spirito del Tempo: «I ricettari seguono un po’ le tendenzestoriche, e negli ultimi 10 anni, fino alla rinascita attuale, i drink analcolici sono quasi andati dimenticati, quindi non abbiamo ritenuto necessario inserirli». Come ci spiega il presidenteFadda, un nuovo ritorno potrebbe però essere dietro l’angolo: «C’è da dire che adesso la tendenza sta un po’ tornando al bere attento, attento alle calorie soprattutto, ma anche alla gradazione alcolica. E quindi stavamo pensando proprio recentemente non di inserirli nella lista IBA ufficiale, ma di creare una sezione a parte».

E per quanto riguarda l’Italia? Ne abbiamo parlato con Paolo Ponzo, storico del bar, e ricercatore di ricettari italiani perduti. «Già Mazzon nel 1920, in quello che viene riconosciuto come il primo ricettario in lingua italiana, dedica una sezione alle “bibite non alcoliche”, proponendo alcune ricette a base di frutta e sciroppi, serviti con ghiaccio. Potremmo definirli a tutti gli effetti come Cocktail Analcolici. Nei due testi successivi, Grandi e Grassi non c’è la stessa attenzione alla tematica, mentre nel ricettario Toscano di Elio Cavallari che ho riscoperto alcuni anni fa compare una sezione di cocktail analcolici, legata in buona parte allo “sponsor” del libro, ovvero l’acqua Roveta, che troviamo utilizzata in quasi tutte le ricette».

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Evoluzione del gusto

Se guardiamo all’evoluzione delle ricette dei cocktail analcolici lungo lo scorrere degli anni, notiamo che la tendenza gustativa tende a seguire di pari passo quella degli alcolici. Se infatti in miscelazione negli anni 80 e 90 a farla da padrone erano i gusti dolci, il mondo dei Mocktail non era da meno. Non pare un caso che chiunque di noi, quando immagina questo tipo di drink, si figura come stereotipo un bicchierone tropicale con dentro un mix di succhi colorati e sciroppi. Ma con l’evoluzione del gusto e la tendenza ad un maggior livello tecnico diffuso dietro a tutti i banconi del mondo, anche i cocktail analcolici hanno teso ad andare nella stessa direzione, implementando le note bitter e botaniche, ed abbandonando i sentori troppo zuccherini. Parallelamente è cresciuto l’uso di preparazioni homemade e prodotti freschi. Inoltre, al concetto di No Alcohol se ne è unito un altro, quello di Low Alcohol, che potrebbe trascendere considerazioni etiche e diventare sempre più influente sul consumo di massa. Tutto questo è stato possibile non solo grazie alla maggiore professionalità dei bartender e alla maggior attenzione dei consumatori, ma anche grazie allo sviluppo di una serie di nuovi prodotti e tecniche che hanno contribuito ad accendere i riflettori su questo segmento. Nelle prossime pagine proveremo ad affrontare la tematica ed a comprendere meglio tutte le luci, ma anche le ombre, di un trend di mercato che pare andare oltre le aspettative.

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Il nuovo trend No-Low Alcol: le motivazioni

Se la guida in stato d’ebrezza rappresenta da sempre un pericolo per sé stessi e per gli altri, dal 2008 la punizione e la tolleranza per questo tipo d’atteggiamento ha subito una stretta ancora più severa con una serie di modifiche alle norme, tra cui la legge n. 125 del 24 luglio 2008 e la legge n. 120 del 29 luglio 2010. Questo inasprimento ha portato molti di noi a inserire nel proprio vocabolario nuove terminologie come “guidatore designato” ed a valutare come normali certi tipi di comportamento, come ad esempio il fatto di dover offrire un’alternativa analcolica nei locali che non si limiti ad una semplice bibita preconfezionata. Visto che non si agisce solo per timore della punizione, ma anche per desiderio del premio, è inoltre innegabile che negli ultimi anni ci sia una sempre maggior attenzione al salutismo, albenessere, ed alla ricerca di prodotti compatibili con uno stile di vita sano. In tal senso tutte le ricerche dimostrano una crescente richiesta di prodotti a minor contenuto di alcool. Non pare un caso che uno dei claim più utilizzati (riferito ai cocktail alcolici) nella Bar Industrynegli ultimi anni si proprio “bere meno, bere meglio”. Ma la rivoluzione più importante pare essere quella che riguarda la tipologia dei consumatori: la nostra società è sempre più internazionale, inclusiva e trasversale, e di conseguenza tende a voler ampliare i momenti di consumo. L’immaginario che vuole i consumatori di aperitivi come giovani, o i bevitori di distillati come uomini, pare ormai sulla via del tramonto, ed è facile trovare ai tavolini dei bar famiglie con i figli o donne incinta. Inoltre (come nel resto d’Europa) anche in Italia le seconde generazioni figlie dei flussi migratori stanno prendendo il loro ruolo attivo nella società, senza per questo rinnegare le loro origini. Il processo di integrazione passa anche dall’accettare che ci sia una parte della popolazione che sceglie di non bere alcolici per motivi etici o religiosi, e nonostante questo sia parte attiva della vita sociale.

Se ci spostiamo dall’altra parte del bancone invece, ci rendiamo subito conto che puntare sui drink analcolici non è soltanto una scelta d’ampliamento d’offerta, ma anche una mossa economicamente vantaggiosa: il drink cost di un cocktail analcolico è sensibilmente minore di uno classico, soprattutto se a base di homemade, come spiega Tommaso Sarti, consulente e controller specializzato nel mondo del bar “ Prendiamo ad esempio uno Shirly Templepreparato con uno sciroppo premium: significa che in un cocktail ci andranno 0,17 cent di granatina, 0,10 cent di succo di lime e 40 cent di Ginger Ale. Circa 0,67cent a drink. Per fare un paragone un Americano viene sugli 0,88 cent ed un Margarita all’incirca 1,45” . Ma paradossalmente ad avere il guadagno maggiore non sono i bar, bensì i produttori, come ci spiega Sarti “ I prodotti alcoolici e soprattutto superalcolici hanno una tassazione fissa, ovvero l’accisa, che va ad incidere molto sul costo finale della bottiglia. Un litro di Gin ha in media più di 4 di accise, mentre un distillato analcolico non ne paga.”

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Ricerche sui consumi attuali ed i consumi stimati

Le previsioni di crescita per questo comparto sono ad oggi estremamente ben auguranti. Si parla di una stima che si aggira intorno ad una crescita del 400% entro il 2024, per un valore che raggiungerebbe i 500 milioni di dollari a livello globale. Ma per capire quanto il fenomeno sia già tra noi, basti pensare che lo scorso aprile, le ricerche su Google del termine “cocktail analcolico” in Italia hanno registrato un aumento del 115%

Per capire al meglio questo dato bisogna considerare che l’attuale quota di mercato è minima, pari allo 0,6%, e che quindi ogni spostamento porta a crescite a doppia cifra in valori percentuali. Ciò non toglie però che negli ultimi due anni il segno + abbia portato ad ottimi risultati, con un 32,7% d’aumento della richiesta, e una previsione di crescita media annua del 14% per i cinque anni a venire, per arrivare ad un totale di 120mila litri di NoLoSpirit consumati nella sola Europa nel 2024. Un’altra evidenza interessante delle ricerche inoltre è che la maggior parte dei consumatori di questi prodotti (circa il 58%) dichiara di bere alcool normalmente, e quindi di scegliere questi drink come alternativa in certi momenti ed occasioni di consumo, mentre soltanto il 14% dichiara di non consumare mai alcolici e quindi di scegliere questo tipo di cocktail per esclusione.

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I prodotti No-Alcool

Partiamo da una premessa metodologica: no, quelli di cui stiamo per parlare non si possono chiamare “Gin Analcolici”. Se infatti il mondo della birra ci ha abituato a pensare che di una bevanda possano esistere varie versioni, compresa quella a 0% alcool, lo stesso meccanismo non è applicabile sul mondo degli spirits. Prendiamo come esempio il celebre distillato botanico a base di ginepro; la sua produzione è normata dal Regolamento UE 2019/787 sulle bevande spiritose. Qui, nella sezione dedicata al Gin troviamo la dizione che segue:

Il gin è la bevanda spiritosa al ginepro ottenuta mediante aromatizzazione con bacche di ginepro (Juniperus communis L.) di alcole etilico di origine agricola.

b) Il titolo alcolometrico volumico minimo del gin è di 37,5 % vol.

Proprio il punto b) ci chiarisce il perché dell’impossibilità nell’utilizzo del nome, ovvero la necessità di una gradazione minima (problematica che troveremo anche più avanti nei LowAbv).

La dizione che più spesso viene dunque utilizzata (a scopo giornalistico e commerciale per questa categoria di prodotti) è quella di “distillati analcolici”, anche se come vedremo più avanti a livello normativo si tratta tecnicamente di idrolati o di acque aromatizzate.

L’altro motivo per utilizzare una terminologia così omnicomprensiva è che negli ultimi anni ormai i prodotti da miscelazione a zero gradi si sono estesi a pressoché ogni categoria merceologica, dagli amari ai bitter, fino alle riproduzioni dei grandi distillati invecchiati.

Il pioniere in questo settore è stato senza dubbio Seedlip, linea di prodotti creata in Inghilterra da Ben Branson, ispiratosi ad i metodi antichi trovati in un testo di fine ‘600. Gli ingredienti utilizzati per aromatizzare queste bevande provengono tutti dalla campagna inglese, e sono in parte autoprodotti nella tenuta di proprietà. Una ricerca di oltre 2 anni che ha portato alla creazione del primo distillato non alcolico al mondo. Il processo di produzione dura quasi 6 mesi in quanto ogni botanica ha bisogno di tempi di macerazione e temperature di distillazione specifici. Il successo di questa linea di prodotti (non a caso acquisita e diventata parte del portfolio del colosso dei distillati Diageo) ha portato ad un fiorire di aziende in tutto il mondo concentrate sulla produzione di distillati analcolici per la miscelazione. Solo per citare alcuni brand e le relative innovazioni, l’australiana Lyre's  èstata tra le prime a creare una gamma completa di sostituti che permette di ricreare i classici della miscelazione in versione analcolica in modo fedele. Delle tredici etichette, cinque sono già disponibili in Italia, ovvero quelle studiate per andare in sostituzione ad Amaretto, Vermouth Rosso, Bitter, Rum Speziato e ovviamente Gin. Un successo testimoniato anche dal report 2020 della rivista Drink’s international, da cui Lyre’s risulta il secondo best sellingbrand no alcol a livello globale. Anche il sapore del Sud America si è velocemente imposto su questo mercato, con il lancio del colombiano Caleño, mentre in Olanda si reinterpretano i classici Jenever (che potremmo definire gli antenati dei moderni Gin) anche in chiave analcolica, come nel caso di Hooghoudt Zero Zero della distilleria indipendente Hooghoudt(1888), che ha creato un infuso di erbe completamente naturale e analcolico, per la creazione del quale ogni componente botanica viene distillata individualmente in bollitori di rame.Sulla stessa falsariga storica si colloca anche Fluère, presente sul mercato italiano dal 2019 grazie a Pallini. Questo distillato non alcolico infatti è creato con la stessa tecnica che i maestri profumieri usano per distillare i profumi, la ricetta si ispira alle erbe e spezie officinali raccolte dalle legioni romane nelle le diverse zone dell’Impero. In Francia a far parlare è il progetto JNPR (che si pronuncia juniper) creato da Valèrie De Sutter in collaborazione con il barman-imprenditore Flavio Angiolillo, che con il suo gruppo Farmilyha contribuito alla realizzazione delle ricette della gamma, recentemente arricchita dall’arrivo di BTTR N°1, alternativa analcolica della categoria bitter, a base di arancia dolce, arancia amara, limone, genziana, rabarbaro, liquirizia e cannella e zucchero. Approfittando di questo filo di connessione tra Francia ed Italia, ci spostiamo nel nostro paese, dove le sperimentazioni in tal senso si stanno facendo sempre più numerose. Il pioniere è stato senza dubbio l’azienda Toscana Memento, che ispirandosi alla conoscenza secolare tramandata nel Ricettario Fiorentino pubblicato nel 1498 dall’Ordine dei Medici e degli Speziali, ha creato il proprio mix di le essenze botaniche che servono a dare un prodotto analcolico dalla chiara impronta territoriale. Non da ultimo, anche un comparto squisitamente italiano come quello degli amari sta guardando nella direzione dei No Alcool. In tal senso è da segnalarsi la versione analcolica di Amaro Venti, creato con botaniche provenienti da ognuna delle regioni d’Italia, disponibile anche in versione analcolica. Ma quello che potrebbe veramente far decollare questo segmento di mercato è il crescente interesse dei colossi degli spirits: dopo l’acquisizione di Seedlips da parte di Diageo, infatti, anche gli altri big player paiono essere interessati a fare la propria mossa, Gli ultimi casi in ordine di tempo sono stati il lancio sotto natale di 0,0% Gordon, creato distillando le stesse botaniche utilizzate nel London Dry Gin omonimo, l’acquisizione da parte di Pernod Ricard della una quota di maggioranza nel marchio spirit analcolico distillato Ceder’s, ed il lancio di Martini di due referenze per aperitivo analcoliche a proprio marchio da sostituire ai classici vermouth della casa torinese.

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Metodi di produzione e le diverse filosofie

Essendo un movimento ancora agli inizi, bisogna subito sottolineare che non esiste un’unica tecnica produttiva, e per il momento nessuno dichiara apertamente le tecniche che utilizza, ci si limita a degli accenni narrativi riguardati distillazioni e blend. Parlando con dei tecnici,però, si può intuire che esistono varie metodiche per ottenere prodotti di questo tipo: la primaè tramite distillazione in acqua per corrente di vapore, tecnica comunemente utilizzata perottenere idrolati. L’alambicco, caricato con acqua invece che con alcool, produce vapore che passa attraverso le membrane delle piante (tipicamente posizionate in un cestello). Il vapore estrae gli aromi delle botaniche e ricondensandosi tramite il raffreddamento produce da una parte oli essenziali e dall’altra acque aromatiche. Si tratta di una tecnica non dissimile da quella che da secoli si usa in profumeria, in erboristica, o nella protofarmaceutica. Leggendo interviste a produttori e siti ufficiali, c’è chi sostiene di dealcolizzare il prodotto attraverso dei filtri a membrane, con cui si rimuove fisicamente l’acool, anche se questa tecnica potrebbe apparire dall’esterno inutilmente complessa e soprattutto estremamente costosa. Una terza tecnica per ottenere questi prodotti, per certi versi più attigua alla prima, è quella di fare un blend di idrolati predistillati per ottenere il prodotto desiderato. Non è da escludersiinfine che un prodotto consono all’utilizzo in miscelazione si possa ottenere con le stesse tecniche con cui si ottiene qualunque bevanda sodata, ovvero con l’utilizzo di aromi e coloranti in acqua, anche se in questo caso bisognerebbe rinunciare a dizioni in etichetta come “distillato”. Un discorso analogo lo si può estendere anche alla “simil-liquoristica”senza alcool (amari, bitter…). In questo caso possiamo supporre che si proceda per infusione di botaniche in acqua, a caldo o a freddo, ottenendo a tutti gli effetti degli infusi con note amaricanti molto spiccate, e quindi utilizzabili in  sostituzione dei prodotti originali.

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Il grande problema dei conservanti

Il problema principale di questa fiorente categoria di prodotti analcolici dedicata al mondo del bar non è un segreto. Anzi, anche se spesso viene ignorato nelle comunicazioni marketing, appare scritto per legge su tutte le bottiglie, visto che come per tutti gli altriprodotti analcolici, anche in questo caso c’è l’obbligo di indicare gli ingredienti sulla retro.Di fondo il problema alla base è quello della conservazione in assenza di alcool, soprattutto perché in linea di massima sono prodotti pensati per andare in sostituzione degli alcolici anche nelle modalità di stoccaggio nel bar, ovvero in bottigliera a temperatura ambiente. L’unico modo per garantire a questi prodotti una vita di 6 mesi dopo l’apertura è quindi l’impiego di conservanti. Facendo un veloce giro delle etichette troviamo dunque l’utilizzo di E202, ovvero sorbato di potassio, noto come antifermentativo, e più sporadicamente E242,ovvero dimetildicarbonato. Questi prodotti sono comunemente utilizzati all’interno dell’industria alimentare, ma sembrano stonare in riferimento a bottiglie che giocano tutta la loro comunicazione sul salutismo e la trasparenza, con frasi ad effetto come “senza coloranti, senza zuccheri, vegan”. Inoltre per sommo paradosso, l’utilizzo di E242 in acqua porta come conseguenza la creazione di metanolo esogeno, ovvero alcool, rendendo prodotti di questo genere non idonei a chi non beve alcool per scelte etiche. Se (come da previsioni) questo segmento di mercato è destinato ad una crescita importante nei prossimi anni, è inevitabile che prima o poi la domanda in merito ai conservanti i produttori dovranno porsela a livello etico, scegliendo se seguire la via della trasparenza o quella del profitto. Se tecnicamente questa sfida pare enorme e da certi punti di vista insormontabile, esistono già alcune soluzioni alternative, sia reali che ipotetiche, che potrebbero cambiare il mercato. Recentemente ha fatto molto discutere la posizione di Fulvio Piccinino, una delle massime autorità intellettuali del mondo del Bar in Italia: “Da noi in Italia gli analcolici ci sono sempre stati, dagli anni Cinquanta in poi, con prodotti iconici come Crodino, S.Bitter o Gingerino Recoaro . I nuovi distillati analcolici non sono gasati e non sono monodose, ma all’assaggio sono molto simili ai suddetti, con toni amaricanti ed agrumati. Nelle monodose degli analcolici l’anidride carbonica funge da conservante, cosa non possibile nei formati proposti, che impatta meno a livello gustativo. All’estero questa tipologia di consumo non è mai esistita, quindi rappresentano una novità. Inoltre in Italia il problema dell’alcolismo non è mai stato un’emergenza sociale: da sempre abbiamo nella bevuta a basso grado la nostra forza, dal vermouth, agli spumanti fino all’Aperol” spiega. Spingendo all’estremo il suo ragionamento, non potremmo escludere che la riduzione del formato e la ripresa di queste tecniche possa portare a diverse modalità di conservazione. Proprio sulla falsa riga della riscoperta della nostra tradizione si colloca anche la nascita di prodotti come BelliNO, di SeiBellissimi, un Bellini analcolico che utilizza gli stessi ingredienti della versione alcolica, ma con un diverso processo produttivo: mosto di uva di Moscato, e polpa di pesche, senza conservanti proprio perché pensato per essere consumato in una singola occasione o poco più. Infine per tutto quello che riguarda il Gin, pare rivoluzionario l’approccio della distilleria Toscana Winestillery, che ha deciso di andare nella direzione opposta alla massa, producendo una boccetta da 100ml con contagocce, contenente un Gin Full Proof a 70%,chiamato Hyper Low Gin, distillato con un’intensità delle botaniche 100 volte superiore al prodotto classico. La modalità d’utilizzo prevede una dose da 1ml per bicchiere da diluire in 200ml di tonica avendo così un grado del drink di 0,35%, (sotto 0,5% è per legge unanalcolico) definibile legalmente come Gin Tonic analcolico, e mantenendo inalterato sia il corpo che i profumi in maniera straordinaria. Insomma, si è voluti arrivare allo stesso risultato (un cocktail a zero gradi) senza però tradire la materia prima originale, ma soltanto ricalibrandone le dosi.

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I soft-drink “Alcool Sounding”, una tendenza internazionale:

Se il mondo dei bar si muove nella direzione dei No-Alcool, anche l’industria pare non essere da meno. In Europa infatti ormai da molti anni il mercato dei sodati ha visto la potenzialità di prodotti che riproducessero a livello palatale i sapori tipici dell’aperitivo tra le mura domestiche, e che potessero in qualche modo sfruttare il successo di alcuni dei drink più amati per la creazione di nuovi prodotti. Non a caso tra i pionieri della ricerca in questo senso ci sono i due colossi globali delle bibite, Pepsico e Coca-Cola, che propongono ormai da anni sui mercati internazionali bevande con gusto cocktail. Un esempio a tal proposito è il grandissimo successo di 7Up (gruppo Pepsico) al gusto Mojito che in certi mercati (come ad esempio quello francese) è in breve diventata la referenza più venduta, superando anche i gusti classici. Non da meno l’intervento di Coca Cola, che sullo stesso mercato con il suo marchio Finley propone (oltre al Mojito) anche una versione Pina Colada e una Spritz. Questi progetti di successo ci aiutano a capire come i consumatori abbiano ormai interiorizzato alcune combinazioni gustative, trasformando una “ricetta” in un sapore, e rendendolo oggetto di desiderio anche solo per il piacere del palato, escludendo dunque la parte alcolica.

Quanti gradi hanno i cocktail?

Stiamo per avventurarci alla scoperta dell’altro grande mondo, quello dei cocktail LowAlcol, ma premessa necessaria ed indispensabile per capirne il concetto è la definizione dello standard. La gradazione dei cocktail infatti è estremamente variabile, a seconda della tipologia di drink (short, long o coppetta), a seconda della diluizione applicata e delle proporzioni tra gli ingredienti, come ci spiega Daniele Cancellara, barmanager di Rasputin a Firenze: “si può andare dai 17% di un americano fino ai 34-35% di un Martini, ma è la mano che cambia tutto, ed ovviamente la diluizione che il ghiaccio apporta” Proviamo dunque a capirlo con un esempio concreto, prendendo un cocktail estremamente semplice e molto amato, di soli due ingredienti, come il Gin Tonic. In questo caso abbiamo un ingrediente alcolico e uno non “Un gin mediamente ha sui 40%, mentre la tonica ne ha 0% per definizione” spiega Cancellara “se prendiamo una proporzione di ¼ e ¾ su un cocktail da 20cl, avremo mediamente una bevuta che si aggira sui 10%. Facendo un paragone, su quantità e gradazione (ed escludendo fattori come l’assorbimento dell’organismo di diverse tipologie di alcool), potremmo dire che grosso modo è equivalente ad un paio di bicchieri di vino o a una pinta di birra. E tutto questo senza considerare l’ulteriore abbassamento dovuto alla diluizione, che può incidere di un 30-40% se si tratta di un cocktail shakerato, o di un 15% se si lavora con un Mixing Glass. Insomma, il punto di partenza per un paragone non è facilmente definibile, ma possiamo partire dal presupposto che la media dei cocktail si aggiri tranquillamente sotto i 30%.

Il mondo dei Low Alcool

L’altro grande trend a livello globale, parallelo a quello del No Alcool e quello del LowAlcool, spesso segnalato come “Low Abv” per abbreviazione. Se volessimo ridurre al minimo il concetto, potremmo riassumerlo come la proposta di cocktail a bassa gradazione alcolica. Come abbiamo visto nel primo paragrafo di questo articolo però, il concetto vuol dire tutto e niente, in quanto anche molti drink storici potrebbero rientrare tranquillamente all’interno di questa categoria. Anche qui per capire al meglio il concetto ci dobbiamo rifarealla legge, nello specifico al Regolamento (UE) 2019/787, che elenca le caratteristiche,ponendo il titolo alcometrico ad un minimo di 15% volume per l’utilizzo della dizione “bevande spiritose”, mentre sopra ai 21 gradi si può utilizzare la dizione di “superalcolici”(Art. 1, comma 2, legge n. 125/2001):

Per bevanda alcolica si intende ogni prodotto contenente alcol alimentare con gradazione superiore a 1,2 gradi di alcol e per bevanda superalcolica ogni prodotto con gradazione superiore al 21 per cento di alcol in volume

Se dovessimo enunciare un primo indirizzo di cosa significa la miscelazione Low Abvpotremmo partire da qui: è una miscelazione che propone cocktail al di sotto dei 21 gradi alcolici. Ma, per essere ancora più coerenti, dovremmo specificare che esiste tutta una corrente di pensiero che non si limita a cercare di avere una gradazione finale intorno ai 21, ma che addirittura sceglie di utilizzare prodotti per la miscelazione che si collochino al di sotto della soglia stabilita.

Voler trovare il punto zero di questo movimento (come spesso accade per i fenomeni globali)non è facile, ma essendo un fenomeno relativamente recente abbiamo molte più informazioni affidabili che restringono il cerchio e segnano la nascita del trend dei Cocktail Low Abvattorno al 2017/18. Ovviamente prima di questa affermazione c’erano già stati molti pionieri, ed è sicuramente da citare in tal senso l’Italia, dove i primi passi importanti in questa direzione sono stati fatti già nel 2014 all’interno della Rotonda Bistro a Milano, luogo in cui tra esigenza e fantasia Diego Ferrari ha in qualche modo gettato le basi per quello che poi sarebbe accaduto a livello globale.

Parallelamente al processo di creazione di questo nuovo modo di bere, si è affiancato anche un processo di riscoperta, che ha portato a rianalizzare i vecchi ricettari di fine 800 e inizio 900, e a riscoprire ricette Low Abv già esistenti e popolari più di un secolo fa, e ancora attuali e gradevoli per i palati attuali.

Negli ultimi anni è divenuto sempre più comune trovare nei ricettari di cocktail una sessione dedicata ai cocktail a bassa gradazione, e conseguentemente anche nelle cocktail list di tutto il mondo.

Uno degli effetti collaterali positivi di questo tipo di approccio è che sempre di più si è cominciato ad indicare nei menù dei bar le gradazioni stimate dei cocktail, sia per i LowAbv, ma conseguentemente anche per il resto dell’offerta, portando anche ad una maggior chiarezza per i clienti che per la prima volta si trovano a confrontarsi con questo tipo di informazioni.

L’impatto sul mercato

La crescita di questo segmento è stata così repentina negli ultimi anni che ha portato il mondo delle aziende ad doversi adeguare, con la nascita di nuove referenze e la riscoperta di alcune storiche. In pochi anni si è moltiplicata l’offerta di bottiglie al di sotto dei 21% abv.Ne sono esempi recenti il lancio da parte di Pernod Ricard delle versioni light (così definite in etichetta) del gin Beefeater e del whisky Ballantine's, entrambi proposti a 20% . Se da un lato questo ovviamente rende impossibile definire i prodotti come Gin e Whisky (per le gradazioni minime richieste dalla legge), la forza dei brand presenti è sufficiente per far intuire al consumatore la modalità d’utilizzo. In Italia c’è invece da citare Aqua 21 della distilleria Castagner, che come da miglior tradizione del nostro paese, nasce da materia prima uva. Ma ovviamente il Low Abv non si basa soltanto sull’utilizzo dei prodotti sotto i 21%, si può tranquillamente utilizzare prodotti che stanno molto sopra o molto sotto per creare un effetto media. I già lungamente analizzati prodotti alcool free si prestano perfettamente (soprattutto in versione bitter e amari) ad una miscelazione con parti alcoliche, per ottenere un drink a contenuto ridotto di alcool. Parallelamente nessuno vieta di ottenere cocktail LowAbv utilizzando distillati classici come rum, whisky, gin e liquori o addirittura con prodotti molto più alcolici come l’assenzio. Tutto sta nella capacità di interpretare le ricette in chiave meno alcolica, dando un risultato eccellente e offrendo al cliente un cocktail gustoso e leggero. Una dimostrazione di ciò è ad esempio la rinascita degli Highball Cocktail, che uniscono distillati anche di lungo invecchiamento (come ad esempio il Whisky) con sodati, rendendoli molto trasversali e leggeri. Infine, ovviamente, c’è da sottolineare che buona parte della tradizione liquoristica (e quindi di cocktail) italiana è già inseribile all’interno di questo mondo: bitter e vermouth sono da sempre le basi per cocktail a bassa gradazione, e l’esplosione di questi prodotti a livello mondiale degli ultimi anni non può che essere utile alla crescita del movimento.

Cocktail Low e No Alcol: esplode la moda dei cocktail alcol free

Hyper Low Gin di Winestillery: il gin concentrato per Gin Tonic analcolici

Il primo a creare un gin superconcentrato per fare Gin Tonic poco alcolici ma ricchi di sapore è stato lo storico brand inglese Hayman’s. Successivamente sono diversi i brand, molti del Regno Unito, che hanno seguito la stessa tendenza. Grazie a Winestillery, con il suo nuovissimo Hyper Low, anche l’Italia si immette in questo rivoluzionario mercato e lo fa in modo provocatorio, aspettando la fine del Dry January e proponendo un “Dry February” con “il primo gin tonic analcolico al mondo”, giocando sul fatto che un gin, per definizione, non può in alcun modo essere analcolico.

I No e low-alcohol spirits non hanno solo un problema di nomenclatura, ma anche di stabilizzazione e conservazione del prodotto, dunque Winestillery ha scelto una via diversa per rivolgersi a quei consumatori che vogliono o devono diminuire il proprio apporto alcolico. Hyper Low Gin di Winestillery, infatti, non è una bevanda analcolica: è un gin full proof molto intenso, prodotto con una tecnica segreta da Bacco, l’alambicco pot still di Winestillery. Proprio come un autentico elisir alchemico, sono sufficienti poche gocce per ottenere il risultato desiderato.

Vuoi un Gin & Tonic analcolico? Basta aggiungere 1ml di Hyper Low in 200ml di tonica ed il gioco è fatto! Ogni millilitro di Hyper Low contiene infatti 0,7% vol., pertanto il tuo Hyper G&T avrà solo 0,35% vol. di alcol ma sprigionerà tutto il sapore del ginepro ed il gusto classico di un vero Gin & Tonic.

Ogni bottiglia di Hyper Low Gin corrisponde a 100 Hyper G&T, rendendo facile e piacevole la preparazione dei cocktail per i bartender. L’idea del Master Distiller Enrico Chioccioli Altadonna è tanto semplice, quanto complicata da realizzare a livello tecnico. Basti pensare che la concentrazione di botaniche è 100 volte superiore rispetto al classico London Dry della pluripremiata distilleria di Gaiole in Chianti.

Cocktail Low e No Alcol: esplode la moda dei cocktail alcol free

Everleaf

Fondata nel 2018 da Paul Mathew, Everleaf produce alcuni degli aperitivi analcolici più complessi al mondo, che l'hanno reso uno dei marchi del settore più venduti nel Regno Unito. Paul è un biologo conservazionista che ha trascorso la maggior parte della sua vita nella natura, ed è stato anche bartender nel suo locale di proprietà: proprio qui ha scoperto quanto potesse essere complicato consigliare alternative analcoliche che possedessero la profondità e la complessità dei drink alcolici. Everleaf è nata come risposta a questa domanda, dopo un lungo e intenso lavoro di ricerca sulle piante, sperimentando macerazioni ed estrazioni per gli aromi più sorprendenti e studiando la maniera più sostenibile per ottenere le migliori botaniche.

Le piante e le botaniche utilizzate per produrre Everleaf seguono una forte ricerca di sostenibilità e preservazione degli ecosistemi: molti ingredienti, come lo zucchero, hanno la certificazione Fairtrade, altri provengono da agricoltura biologica, come le foglie di ulivo, mentre altri sono collegati a iniziative sociali. La tracciabilità di ogni singolo elemento è sempre garantita, e assicura la migliore qualità della materia prima. A seconda della pianta vengono utilizzati metodi di estrazione diversi, in modo da ottenere il meglio degli aromi: per esempio la distillazione a vapore per il vetiver e la macerazione in alcol per la vaniglia. La gomma di acacia, che dona viscosità all'analcolico, viene ridotta in polvere finissima. Gli estratti sono poi miscelati insieme a mano.

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Da Campari Soda a Bacardi Breezer, Hard Selzer evoluzione di una categoria a bassi volumi

Anche nella categoria dei ready-to-drink a basso volume alcolico l’Italia è stata inconsapevole pioniera. È infatti innegabile che un prodotto iconico come il Campari Soda sia in tutto e per tutto un precursore di quello che oggi le aziende stanno lanciando sul mercato. L’altro prodotto che a tal proposito potremmo definire ormai “storico” è il Bacardi Breezer, lanciato a inizio anni 90 con tutte le caratteristiche di quella che era la bevuta dell’epoca (dolce e colorata), e che nonostante sia a base di rum conta solo 4 gradi, meno di una birra classica. Ma la grande rivoluzione degli anni 20 paiono essere gli Hard Selzer, prodotti che negli Stati Uniti stanno spopolando e che provano ad imporsi anche sul mercato europeo. Queste bevande moderatamente alcoliche contengono acqua gasata, spesso un’aromatizzazione di natura fruttata e una componente alcolica ottenuta tramite l’aggiuntadi vino, liquori, distillati o malto d’orzo.  Su questa categoria si sono già lanciati colossi come Corona, Molson Coors, Heineken e Coca-Cola, e pure figure mediatiche come lo Chef Gordon Ramsay, che ha presentato la propria linea di prodotti chiamata Hell’s Seltzer.

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Ph Credits: Michele Tamasco

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