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Qualità, nomi, certificazioni e confusioni nel processo di globalizzazione selvaggia

Piccoli produttori di eccellenze e l'incapacità di fare sistema per valorizzarsi

Qualità, nomi, certificazioni e confusioni nel processo di globalizzazione selvaggia

C’era una volta il mercato locale, quando bastava produrre qualità e affidarsi al passaparola per poter contare su una clientela fidelizzata e per prosperare, facendola crescere nel tempo.

Poi è arrivata la Grande Distribuzione, che dopo aver smantellato la rete dei negozi di vicinato ha capito di poter sfruttare il proprio potere contrattuale per fare le scarpe ai produttori e quindi ha iniziato a vendere a proprio marchio, con l’obiettivo di rompere piano piano i rapporti di fiducia fra l’azienda produttrice ed il consumatore finale. Ora c’è Amazon, che dopo aver messo in ginocchio i grandi centri commerciali, si avvia a fare lo stesso con le medie e le piccole superfici della distribuzione moderna, facendo leva su una logistica di efficienza mostruosa, che a breve sarà ulteriormente rivoluzionata dall’utilizzo dei droni.

Niente e nessuno potrà ormai arrestare il processo di globalizzazione selvaggia dei mercati e la sola, piccola arma in mano a chi produce è rappresentata dal nome del proprio prodotto. Lo sanno bene le grandi aziende, che investono cifre ragguardevoli per tentare di tenere viva e possibilmente accrescere la notorietà e la reputazione dei propri brand. Lo sanno anche (o almeno dovrebbero saperlo) anche i piccoli produttori, che però non dispongono di quei mezzi finanziari, né quando aderiscono ad un marchio collettivo (come può essere una Denominazione d’Origine o un qualunque altro marchio di qualità certificato: biologico, vegano, ecologico o altro), né, a maggior ragione, quando operano individualmente, con un proprio marchio privato. Esistono eccezioni virtuose, come quelle di qualche grande Consorzio (Parmigiano Reggiano e Champagne su tutti), che hanno saputo convincere le piccole imprese associate della necessità di destinare quote consistenti dei loro ricavi ad iniziative per la valorizzazione del marchio consortile e per la tutela rispetto ai tentativi di usurpazione o anche di semplice imitazione del proprio marchio da parte di soggetti terzi. Così facendo, essi sono riusciti ad assicurarsi un posizionamento di mercato distintivo (e molto remunerativo) rispetto ai concorrenti.

Non è però questa, malauguratamente, la situazione in cui si trova la stragrande maggioranza delle piccole aziende, che, anche quando realizzano prodotti di assoluta eccellenza, non riescono a rendere riconoscibile la loro qualità: i loro prodotti non possono ovviamente costare quanto quelli dei concorrenti meno qualificati, ma la loro è una guerra persa in partenza se non riescono in alcun modo a giustificare il proprio premium price. La piccola dimensione delle aziende e la loro scarsa propensione a stare insieme rappresentano ovviamente i problemi principali e di più difficile risoluzione. Ma ce ne sono anche altri, che non sempre sono tenuti nella giusta considerazione e che invece potrebbero aiutare i produttori di qualità a resistere. La prima questione è la specificità, o meglio la “difendibilità” del marchio in quanto tale. Se un prodotto DOP o IGP si chiama Parmigiano Reggiano o Champagne, o anche Franciacorta, Gorgonzola o Brunello di Montalcino, esso sarà molto più riconoscibile rispetto ad uno che si chiami Provolone, Mozzarella, Pizza, Pasta o Caffè o che utilizzi qualsiasi altro termine considerato “di uso generico” per designare tutti i prodotti di una determinata categoria merceologica. In questi casi basterà infatti aggiungere un semplice aggettivo per aggirare l’ostacolo ed essere formalmente a posto con la legge.

Il secondo problema scaturisce dalla inflazione di marchi di qualità: sia quelli riconosciuti a livello internazionale, come i biologici o le Denominazioni d’Origine (in Italia, senza considerare i vini, ne abbiamo oltre 310, ma più dell’80% del fatturato complessivo proviene da 10 soltanto), sia (peggio ancora) quelli fantasiosi e privi di qualunque reale riferimento normativo, come è per esempio il caso dei cosiddetti vini “naturali”. Tutto questo forse serve a consulenti e politici locali, ma confonde terribilmente le idee di chi deve scegliere cosa acquistare, a che prezzo e con quali garanzie reali.

È assolutamente lecito, a questo proposito, ritenere che una certificazione da parte di un Ente indipendente valga poco o nulla. Ma un conto è sapere che qualcuno si è assunto la responsabilità di dichiarare che un prodotto è stato realizzato secondo un certo disciplinare di qualità; altro è lasciare che sia lo stesso produttore a giurare che la propria creatura non teme confronti. Una novità interessante per ridurre la grande confusione esistente a proposito di marchi di qualità biologica e ambientale è rappresentata dalla recente decisione italiana di adottare uno standard unico per la sostenibilità dei vini, che dall’anno prossimo potranno fregiarsi di un logo apposito a condizione di essere stati ottenuti nel rispetto di un disciplinare pubblico, in cui saranno finalmente regolati in modo univoco sia l’impiego di fitofarmaci che l’uso delle buone prassi, tanto in vigna che in cantina. Un’ultima questione è quella legata alla mancanza di una norma che obblighi chi vende prodotti alimentari (su uno scaffale o su un sito web) a separare fisicamente i prodotti di qualità certificata dagli altri. Non costerebbe nulla e semplificherebbe molto la vita di chi vorrebbe acquistare prodotti di qualità controllata. Se ne parla da almeno 7 anni, ma finora non si è visto nulla, forse perché a guadagnarci non sarebbero né le grandi aziende produttrici né i grandi gruppi della distribuzione.

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