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Quindi per lavorare serve il Green Pass e non il contratto?

Mancanza di operatori nel settore ospitalità, contratti di lavoro, green pass

Quindi per lavorare serve il Green Pass e non il contratto?

Il tanto atteso primo giorno di green pass obbligatorio al lavoro e che succede? Alla fine della mattinata all’Inps erano arrivati 47.393 certificati di malattia, in lieve aumento (5,5%) rispetto a due settimane prima ma con un deciso balzo (+23,3%) rispetto al venerdì precedente.

Darsi malati resta l’unica alternativa per quei pochi ostinati che dicono no a vaccinarsi e al contempo non hanno voglia o denaro per farsi tamponare ogni due giorni. E così aumentano i certificati medici presentati dai dipendenti, sia riguardanti il lavoro pubblico che quello privato.

In tutta onestà la cosa non mi sorprende, ma mi mette a pensare.

Cosa starà accadendo nel frattempo a tutti quei lavoratori che non non possono usare certificati in quanto, green pass o meno, quello di cui non dispongono è un vero e regolare contratto di lavoro?

Gli introvabili

Ci eravamo lasciati, prima dell’autunno, con una vuoto di oltre 150mila lavoratori (stagionali, del turismo e della ristorazione) che erano oramai diventati reperibili meno della carne da Daniel Humm.

"Ben 220mila persone assunte a tempo indeterminato e dunque pilastro delle nostre impresespiega Aldo Cursano, vice presidente vicario di Fipe-Confcommercio a fine 2020 hanno preferito cercare altre strade, magari meno soggette al fenomeno dello stop & go con cui bar e ristoranti hanno dovuto convivere negli ultimi 18 mesi".

Dunque Fipe-Confcommercio, la Federazione italiana dei pubblici esercizi, e Assosomm, l’Associazione italiana delle agenzie per il Lavoro, qualche settimana fa, hanno sottoscritto un protocollo d’intesa che dà il via a un progetto sperimentale che durerà 12 mesi e che vedrà la costruzione di un filo diretto tra le diverse agenzie per il Lavoro (sparse nella penisola) e le declinazioni territoriali di Fipe-Confcommercio, per costituire un modello virtuoso per la somministrazione di forza lavoro sempre più qualificata e professionalizzata.

Alla base di ogni nuovo impiego è previsto il contratto nazionale del lavoro, sottoscritto da Fipe-Confcommercio e dai sindacati di categoria nel 2018. Le agenzie per il lavoro, infatti, per l’assunzione di lavoratori in somministrazione utilizzano proprio i contratti collettivi nazionali di riferimento: trattandosi a tutti gli effetti di lavoro dipendente ai lavoratori devono essere garantiti i medesimi livelli contributivi e di inquadramento previsti per i dipendenti assunti direttamente da un’azienda.

Ma cosa porta così tanti operatori del settore ad una tale sfiducia?

Ci siamo chiesti mille volte cosa avesse portato tanti lavoratori ad abbandonare il settore dell’ospitalità e ci siamo risposti con reddito di cittadinanza, Naspi, giovani svogliati, fuga di cervelli.

(Ve ne avevamo parlato qui)

La verità è che la pandemia ha acceso una luce importante per i lavoratori che hanno visto che a pagare la crisi nella maggior parte dei casi non sono gli imprenditori, ma i dipendenti, soprattutto quelli in nero.

La verità è che siamo ineducati alla valorizzazione del lavoro, all’investire nel capitale umano e nella sua formazione, alla riscoperta di un mestiere - il cameriere - associato sempre solo alla scelta di non studiare.

La ristorazione, tutta, è vittima di un atteggiamento che in maniera circolare impatta da anni sule varie generazioni di nuova forza lavoro che si accosta e di addentra nel settore: "Chi è bravo lavora tante ore", il cuoco eroe che si fa turni di 12 ore, il cameriere che lavora sette giorni su sette senza riposo.

Tutto questo non è sano e non è più tollerabile!

Sempre più evidente è che ci troviamo di fronte ad una svalutazione del lavoro: a partire dalle scorciatoie per pagare meno contributi per i dipendenti come la possibilità di fare stage, tirocini e fino ad arrivare all’inculcare una educazione al sacrificio forzato quasi da trincea.

Il surplus di lavoro è troppo spesso invisibile e non retribuito

Quindi per lavorare serve il Green Pass e non il contratto?

Diciamo che un ristoratore assume un cameriere per lavorare 20 ore a settimana. Contratto part-time regolare, retribuzione altrettanto regolare. Il cameriere, però, lavora 60 ore: il pagamento delle 40 ore aggiuntive è in nero, l’importo deciso in autonomia dal titolare. Si chiama lavoro a scacchi!

Ma in un settore che secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato nazionale del lavoro ha un tasso medio di irregolarità del 73%, il lavoro a scacchi è comunque un modo per provare a cautelarsi in caso di controlli: c’è un contratto da esibire per dire che quel cameriere è retribuito il giusto. Anche se in realtà lavora il triplo e guadagna molto poco.

Gli stagionali, nelle spiagge, negli alberghi, fanno turni massacranti anche per 3-4 euro all’ora.

Poi ci sono i contratti pirata, quelli sottoscritti da organizzazioni sindacali capestri. Sono i casi il cui il contratto non c’è e tutto viene deciso dal titolare dell’attività. In questi casi la tutela delle condizioni dei lavoratori è affidata ai controlli degli ispettori del lavoro, che ovviamente non possono riguardare tutte le attività. È un compartimento in cui si ritrovano i circa 500mila stagionali estivi.

L’Italia, secondo le tabelle Eurostat, è il Paese che l’anno scorso ha perso più di 39,2 miliardi di salari e stipendi, passando da 525 a 486 miliardi. La Germania ha perso appena 13 miliardi, tra l’altro su una massa salariale di oltre 1.500 miliardi. La Francia ha lasciato per strada 33 miliardi, ma nonostante questo la massa è comunque a quota 898 miliardi. Le buste paga dei lavoratori degli altri Paesi europei hanno pagato un prezzo decisamente più contenuto. Da noi, invece, non solo si è registrato il tonfo più consistente, ma si è anche azzerata la crescita dei salari che si era iniziata a registrare dal 2015 in poi con la decontribuzione sulle assunzioni.

Pur calibrando gli stipendi sul costo della vita, restiamo il Paese in cui sono cresciuti molto meno che altrove e soprattutto le cose peggiorano quando si passa dal lordo al netto: ci ritroviamo con un cuneo fiscale pari al 46%, mettendoci al quarto posto della graduatoria dei lavoratori più tartassati tra i Paesi Ocse (ben 11,4 punti sopra la media). I salari lordi italiani sono tassati del 29% che tradotto in soldi vuol dire che il costo del lavoro si attesta a quasi 49mila euro l’anno per ogni lavoratore single senza figli.

Lavorare.. sull’educazione

Il rispetto per il lavoro, l’impiego del tempo proporzionato alla retribuzione, contratti di lavoro reali e non che si adeguino al classico italianissimo “veniamoci incontro”, il sacrosanto giorno libero, la turnazione allo scopo della tutela del personale e delle persone. Sono tutte cose che dovrebbero risultare imprescindibili.

Perché si troverà sempre quella persona in difficoltà e che deve dare sostegno e concretezza alla famiglia per cui sarà disposta a spaccarsi la schiena per 400 euro al mese, quella persona che preferisce lavorare al ristorante anche per poco piuttosto - magari- che andare alla Caritas. Ma non è socialmente accettabile.

Dovrebbero tutti rifiutare queste offerte indecenti, i ristoratori dovrebbero davvero capire l'importanza dei dipendenti e della loro stabilità, del loro stimolo a restare dove sono più che a trovare l'occasione più ghiotta. Sono i dipendenti a produrre la ricchezza, sono loro le risorse da valorizzare e da ‘trattenere’ creando un ambiente di lavoro favorevole che genera di certo una serenità alla quale non si rinuncia facilmente.

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