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Spreco alimentare ma ancor di più sperpero di idee

Legge sullo spreco alimentare: dalla Spagna all’Italia, dalla GDO ai piccoli produttori.

Spreco alimentare ma ancor di più sperpero di idee

La Spagna si attiva contro lo spreco alimentare. È la terza nazione europea a mettersi in moto per un provvedimento del genere dopo Francia e Italia (entrambe nel 2016).

E così il parlamento nell'ultima riunione ha approvato il primo provvedimento in materia: pene dure e multe salate per chi non rispetterà le regole.

La legge prevede l’adozione da parte di tutti gli agenti della filiera di un piano per la prevenzione delle perdite e degli sprechi, che devono essere minimizzati o dirottati secondo una gerarchia dove la priorità è sempre la donazione o la ridistribuzione del cibo. Sono previste anche delle sanzioni: le multe possono andare da 2.001 a 60mila euro; per le infrazioni gravissime le sanzioni possono arrivare anche a 500mila euro.

La legge cerca anche di inserirsi negli obiettivi di sostenibilità dell’agenda 2030 delle nazioni unite, ovvero “dimezzare lo spreco alimentare pro capite globale a livello di vendita al dettaglio e di consumo e ridurre le perdite alimentari nella produzione e nelle catene di approvvigionamento”.

Stando all’ultimo studio condotto dall’esecutivo spagnolo sullo spreco alimentare, il 75% delle famiglie spagnole afferma di sprecare cibo: degli alimenti che finiscono nella spazzatura, tre quarti sono prodotti non lavorati, cioè non sono stati cotti. E tra questi prodotti, i più diffusi sono la frutta (32,1%), la verdura (13,6%), il pane (4,8%) e il latte (4,5%).

Secondo i dati del 2020 lo spreco di cibo nel paese è stato quantificato in 31 chili pro capite per un totale di 1.300 tonnellate di cibo sprecato ogni anno in tutta la Spagna.

La legge prevede:

  • donazione o la ridistribuzione del cibo attraverso accordi di collaborazione con aziende, enti di iniziativa sociale e altre organizzazioni senza scopo di lucro o banchi alimentari.
  • trasformazione degli alimenti che non sono stati venduti, ma che mantengono le condizioni ottimali per il consumo, in prodotti come succhi o marmellate
  • quando l’alimento non è più idoneo al consumo umano – terzo step – si prevede che venga destinato, nell’ordine, all’alimentazione animale, all’uso come sottoprodotto in un altro settore e all’ottenimento di compost o i cosiddetti “biocarburanti”.

Importante poi a livello etico:

la legge include progetti collaborativi tra ristoranti, organizzazioni di quartiere e banche alimentari, portando anche le aziende parte della filiera alimentare a presentare piani efficienti contro gli sprechi.

In media un terzo di ciò che viene ordinato nei ristoranti diviene spazzatura, ma basterebbe la cosiddetta Doggy bag promossa ora anche dal Governo spagnolo per limitare le conseguenze negative del pranzo o della cena fuori casa.

I ristoranti e lo spirito collaborazionistico che ne dovrebbe venire fuori potrebbero essere il centro di un cambiamento che mira ad educare in primis.

La volontà della Spagna è poi promuovere il consumo di prodotti stagionali, locali e biologici, educando alla reale comprensione del significato dei tre termini. I “veri” prodotti della terra che rispettino i reali cicli naturali senza l’impiego di dissertanti, pesticidi e ausili chimici vari non sono mai stati perfetti e tutto quel che appare poco attraente è in realtà ben più naturale e salutare di alimenti tanto perfetti da sembrare finti.

IL COMMENTO

Discorso lungo, filiera corta

Il problema è che questo tipo di leggi agiscono sul sintomo e non sulla causa: azioni di recupero, riciclo e redistribuzione del cibo sono utili per venire incontro a situazioni emergenziali e risolvono alcuni problemi ambientali soprattutto legati allo smaltimento, ma riguardano soltanto un piccolo pezzo del problema in quanto incidono sullo spreco ma non sulla filiera che è il vero “ostacolo strutturale”.

Basti pensare che ad un (seppur piccolo) aumento del fabbisogno umano corrisponde un incremento degli sprechi di 32 volte.

Senza troppi sprechi di parole:

serve ricominciare a spingere la produzione e il consumo locale tendendo in considerazione bisogno e fabbisogno specifico di ogni singolo territorio. Insomma la filiera corta, con distruzioni locali e vendita diretta, riduce gli sprechi ad un terzo. Se entriamo nella catena del solidale, addirittura si arriva a parlare di ridurre lo spreco ad un ottavo!

Rendendo la filiera più snella e meno articolata si potrebbero ottenere vantaggi economici ed ambientali non trascurabili anche perché i passaggi inutili esistono. I migliaia di chilometri che il cibo deve percorrere fa in modo di rendere necessari imballaggi e utilizzo di mezzi di trasporto che contribuiscono ad aumentare il livello di emissioni inquinanti. Inoltre, prezzo di trasporto e costo di produzione saranno entrambi molto alti dato che si coinvolgono numerosi intermediari lungo la filiera. E rendiamoci conto che all’agricoltore va meno del 20%. Mentre con questa filiera più diretta il cliente avrà una materia prima con migliori caratteristiche organolettiche e certamente fresca; il produttore taglierà i costi; l’ambiente ne gioverà per emissioni minori; l’economia girerà inevitabilmente rendendo la produzione locale “glocalizzata” dunque “pensare locale e agire globale”.

Parliamo e ci riferiamo sempre al “food waste”, ovvero lo spreco causato dalla vendita al dettaglio e dai consumatori, ma c’è un altro dato da tenere presente - come sottolinea la Fao - e si tratta del meno chiacchierato “food loss”, la perdita di cibo che avviene ancora prima, nelle fasi iniziali del processo produttivo, di raccolta, trasformazione, trasporto e vendita.

Lo spreco alimentare nascosto: obesità

Un altro dato Fao impossibile da trascurare è quello sull’aumento dell’obesità: oltre 672 milioni di adulti e 124 milioni di giovani tra i 5 e i 19 anni (mentre 820 milioni di persone soffrono la fame); ciò rientra comunque in una catena di spreco in quanto si tratta di cibo mangiato in eccesso rispetto al nostro fabbisogno.

Secondo uno studio se ogni persona sovrappeso riducesse il suo consumo giornaliero di 100kcal, per 365 giorni in 1.4 miliardi di persone e considerando un fabbisogno calorico di 2500 kcal/die… beh si sfamerebbero 56 milioni di adulti: quasi l’intera popolazione dell’Italia.

Pensare è già a km0

C’è un’altra faccia della medaglia però, che -troppo presi da concetti che stanno sfiorando nell’eccesso e nel fasullo come sostenibilità e km0 - ci sfugge e non ci fa guardare al problema in un’ottica più mediata e meno angolata.

I grandi modelli economici e culturali che si impongono dando vita alla storia dell’alimentazione sono stati la vera chiave per la riscoperta del piccolo produttore: se non ci fosse stata tutta la comunicazione di cui fanno e facciamo uso ogni giorno, il piccolo contadino del paesello anonimo avrebbe mai avuto possibilità di far conoscere il proprio prodotto di eccellenza nel mondo?

Diffusione, conoscenza e salvaguardia di alcuni piccoli tesori alimentari con caratteristiche organolettiche, storiche e territoriali specifiche di devono alla ribalta avuta grazie a quelle che conosciamo come GDO e distribuzione centralizzata che non solo permettono quanto detto su ma rendono più semplice attuare procedure efficienti di recupero, riuso e riciclo delle eccedenze, perché è più facile interfacciarsi con poche, grandi centrali distributivi che con una miriade di piccoli distributori.

Ci sarebbe da fare distinzione tra modello economico e modello sociale.

Il primo mi sembra ovvio stravinca con la globalizzazione, il secodno invece prevede seguito con l’uso di concetti “social-mente carichi di hype” come sano, fresco, controllato, biodinamico, biologico, nutrizionalmente valido.

Ma queste keywords diventano anche la copertura per camuffare l’inefficienza di territori e mentalità arretrati. Un’arretratezza che riguarda soprattutto i piccoli produttori agricoli (in particolare al Sud), sia la carenza di impianti (magari consortili) in grado di trasformare le eccedenze stagionali di ortofrutta fresca. Dovrebbe essere una priorità delle Regioni - che gestiscono le gigantesche risorse europee per l’agricoltura - e delle Università, ma nessuno sembra soffermarcisi più del tempo che serve a dire “quanto c***o costano le ciliegie!!!”, con la conseguenza che i prezzi del fresco (quello bello da vedersi e al culmine del processo di maturazione) aumentano e buona parte dei raccolti si butta via. Oppure viene comprata a prezzi ridicoli dalle grandi industrie del Nord.

L’ Itaglia

Un’altra criticità tutta italiana e non secondaria è il modo in cui vengono interpretate (e sanzionate) le normative sanitarie che riguardano le produzioni alimentari.

In Italia a “monitorare” l’antispreco ci sarebbe la legge Gadda del 2016 che - a differenza di Francia e Spagna - “non sanziona ma promuove”.

“Tutto bello ma non ci vivrei”.

Sì, perché così facendo ogni ASL ragiona a modo suo e rende complicata la vita dei diversi attori della filiera: tutto rischia di essere vanificato se sulle attività di recupero non si legifererà in modo chiaro e univoco, per non lasciare spazi alla libera interpretazione del vigile sanitario o del Carabiniere dei NAS di turno.

Forse non è proprio un caso che la nostra Pubblica amministrazione, infatti, sia una delle peggiori tra i Paesi Ocse, siamo 33esimi su 36 Paesi (dati 2022: Quality of Government Index dell’Università di Göteborg, ovvero un indicatore composto da tre pilastri: il livello di corruzione, le caratteristiche della legislazione unitamente all’osservanza della legge e la qualità della burocrazia in senso stretto. Un indice, quindi, che non tiene conto solo delle singole procedure burocratiche, ma valuta anche i loro effetti sui comportamenti e sulle performance sia dei cittadini che dei legislatori.)

“Permette un pensiero?”

E allora proviamo ad avere iniziative personali contro gli sprechi alimentari perché già la burocrazia uccide le buone intenzioni.

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