I disturbi alimentari non vendono. Per questo non ne parliamo.
Il settore food parla troppo poco dei disturbi alimentari. Perché?
How boring! - La comunicazione gastronomica ha fallito in un grande obiettivo: parlare dei problemi alimentari
Seguo molto Gabriele Rosso con la sua rassegna Burp! Su Gastronomika. Nella sua rassegna settimanale, mi ha colpito molto il pezzo del Washington Post che parla di Robert Petrone, restaurant hunter molto famoso colpito da un attacco di cuore che gli stava costando la vita; il pezzo s’intitola “Food was my life, until 41 an heart attack almost killed me” (Il cibo era la mia vita, fino a che un attacco di cuore a 41 anni non mi ha quasi ucciso).
A questo punto, la riflessione giunge inevitabile: cosa fa il nostro settore (e qui parlo dei comunicatori del food, in massima parte) per affrontare i problemi del nostro oggetto di lavoro (il cibo), altrimenti detti disturbi alimentari?
Di sicuro, tutti conosciamo i nomi di due disturbi alimentari: anoressia e bulimia. Ma ne esistono molti altri: la vigoressia ed il binge eating disorder, tra gli altri. Questi due, in particolare (per vigoressia intendiamo l’ossessione per la forma fisica/magrezza e allo sviluppo di un corpo tonico,, per binge eating disorder l’assunzione incontrollata di cibo spesso senza la “compensazione” del vomito bulimico) insorgono particolarmente in età adulta. Soprattutto il sesso maschile – che in età adolescenziale sembra essere meno toccato dalla problematica – in età adulta ha maggiori possibilità di incorrere in vigoressia e BED.
E la nostra categoria, come sta messa? Male, inutile dirlo. Sicuramente, conduciamo spesso (COVID permettendo) uno stile di vita abbastanza scellerato. Degustazioni che durano troppo, inviti stampa che si succedono, uno dietro all’altro, continuamente. Certo: sappiamo bene che certe malattie sono il rischio insito nel mestiere/passione di chi si cimenta con l’informazione gastronomica.
Ma siamo davvero sicuri che ci serva tutto quel cibo? E soprattutto: siamo davvero sicuri che tutto questo cibo serva perché abbiamo realmente fame e non per una fame emotiva? Eppure, se ne parla troppo poco.
Come reagisce la mente davanti a tutta questa sovrabbondanza? Come ci si sente ad avere a che fare sempre, costantemente con il cibo? Sottoposti a bombardamenti di foto, di comunicati stampa, ad avere sempre il cibo come unico focus?
Un’idea, io, me la sono fatta: ad un certo punto, non esiste più la fame fisica. Entra in circolo un meccanismo autonomo che ti porta a cibarti soltanto perché devi farlo, perché ti manca qualcosa. Un meccanismo di compensazione.
Parliamo molto di nutrizione, stili alimentari corretti ed altro: ci riempiamo costantemente la bocca e pubblichiamo fior fiore di articoli e libri aventi come oggetto la dieta mediterranea, forse perché – essendo effettivamente un regime molto valido, se non il più valido – ci permette di lucrare moltissimo, soprattutto nella nostra terra. Ma non c’è dieta mediterranea che tenga se non c’è un rapporto corretto tra l’individuo ed il cibo, che non deve essere utilizzato come riempitivo, sfogo, canalizzatore di emozioni. Questo rapporto deve venire ancora prima della scelta del regime alimentare da seguire.
Non ci sono precedenti in rete? Per quanto riguarda il panorama italiano, non è detto; Giorgia Cannarella di Vice Italia ha più volte raccontato del suo rapporto particolare col cibo, legato anche al suo lavoro di giornalista gastronomica.
Ma resta una voce isolata; importante, ma isolata. Come se ci fosse una certa paura o reticenza nell’affrontare l’argomento, che siano blog e riviste più importanti o tra i più piccoli.
Qualcuno di voi potrà obiettare che il nostro ramo è solo intrattenimento; l’Inclemente non la pensa così. Nel momento in cui facciamo sentire la nostra voce per i rider, ci impegniamo. Nel momento in cui denunciamo scandali nella cucina di X chef, ci impegniamo. Dobbiamo prendere serenamente coscienza di aver volutamente ignorato il problema dei disturbi alimentari, mentre avremmo potuto occuparcene molto prima. Probabilmente, ripeto, questo è accaduto ed accade perché non remunerativo come argomento.
E per quanto riguarda invece chef, staff di cucina e di sala? Abbiamo chiesto il parere ad Antonio Labriola e Sonia Rotondo, entrambi psicologi e lavoratori della ristorazione, che per Foodclub curano la rubrica The Dark Side of Restaurants.
“Il nostro settore è molto variegato; parlando degli operatori di sala e cucina, spesso questi non hanno il tempo di mangiare, eppure hanno perennemente qualcosa da assaggiare. Quindi, un contatto continuo col cibo che però è sempre sfuggente. Non c’è mai un tempo sano per il pasto. Spesso, lo chef deve imporre alle brigate il pasto tutti insieme, prima o dopo il servizio. Questa è una cosa sana, perché permette allo staff di socializzare e di ritagliare un momento sano per nutrirsi. Quando ciò non accade, spesso i lavoratori della ristorazione sono portati ad assumere comportamenti disfunzionali: dopo il servizio si accontentano di cibi rapidi o junk food. Questo può andar bene una volta, ma se ripetuto, si avvia la disfunzione. L’argomento del rapporto tra chi cucina ed il modo di approcciarsi al cibo è ancora poco studiato, un campo possiamo dire inesplorato. Ma di problematiche ce ne sono, eccome.”
Reputate ancora di poter perdere tempo a non parlarne?
Volete raccontare la vostra esperienza?
Ognuno di noi ha un rapporto individuale con il cibo. Non perdiamo l’occasione di parlare e raccontarci.
Illustrazione a cura di The Animismus
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