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Il conservatorismo alimentare è sinonimo di diffidenza del consumatore italiano: non siamo aperti a ciò che non è tradizione e restiamo chiusi nelle cucine delle nostre nonne!

Fermentazione, Germinazione. surgelazione ed essiccazione: la tradizione zavorra dell'innovazione in cucina

Il conservatorismo alimentare è sinonimo di diffidenza del consumatore italiano: non siamo aperti a ciò che non è tradizione e restiamo chiusi nelle cucine delle nostre nonne!

Caso mai non ce ne fossimo accorti, la pandemia ci ha ricordato quanto siamo abitudinari: diamo il giusto valore alle cose quando non le abbiamo più a disposizione e cerchiamo soluzioni alternative solo quando siamo con le spalle al muro.

In gastronomia, per esempio, i nostri storici punti di forza consistono nella straordinaria disponibilità di materie prime fresche e in una cultura millenaria su come queste possano trasformarsi in preparazioni più o meno semplici, in modo da esaltarne le qualità originarie.

Ma è proprio questa abbondanza a condizionarci ed a frenare la nostra creatività: abusiamo di slogan demagogici come il “km. 0”, esasperiamo oltre misura il principio della stagionalità degli ingredienti e consideriamo un oltraggio al pudore qualunque re-interpretazione che uno chef straniero si permette di proporre su un piatto italiano per adattarlo ai gusti locali, come è successo nei giorni scorsi con la Smoky Tomato Carbonara .

Il conservatorismo alimentare è sinonimo di diffidenza del consumatore italiano: non siamo aperti a ciò che non è tradizione e restiamo chiusi nelle cucine delle nostre nonne!
Smoky Carbonara New York Tymes

Siamo abituati male e siamo pure maledettamente provinciali, perché non ci rendiamo conto delle tante altre strade che potremmo percorrere per trasformare le nostre materie prime, ricorrendo a tecniche che altrove sono molto più utilizzate che da noi. E non capiamo che, così facendo, non solo non tuteliamo affatto il nostro patrimonio, ma lo banalizziamo e non ne sfruttiamo a pieno il valore.

Quante eccedenze di frutta e verdura si potrebbero recuperare se le si trasformasse in tutti i modi possibili, invece di coltivare il mito della stagionalità e del km. 0 a tutti i costi, il cui risultato è di penalizzare l’agricoltura delle aree lontane dai luoghi di consumo?

Quanto saremmo più seri se, anziché lamentarci per le imitazioni dei nostri prodotti all’estero e sparare cifre a caso sul valore del “falso Made in Italy”, ci rendessimo conto di quante volte anche noi usiamo a capocchia i nomi di piatti francesi, giapponesi o cinesi per definire cose che non assomigliano neanche lontanamente agli originali? E perché allora non copiamo il governo giapponese, che ha messo a punto un rigoroso sistema di certificazione per prevenire lo sputtanamento dell’autentica cucina nipponica nel mondo ad opera delle comunità cinesi e dell’imperversare del famigerato all you can eat?

Non è un invito ad mettere da parte la tradizione ma a farne un uso consapevole e al guardarsi intorno con la mente sgombra per non perdere opportunità.

Il conservatorismo alimentare è sinonimo di diffidenza del consumatore italiano: non siamo aperti a ciò che non è tradizione e restiamo chiusi nelle cucine delle nostre nonne!
Il Noma di Copenaghen

Al Noma di Copenaghen, René Redzepi sorprese il mondo intero mettendo a punto tecniche e strumenti non convenzionali per creare piatti incredibili da quel poco che il suo territorio gli metteva a disposizione: muschi, alghe, licheni, bacche, erbe spontanee, vermi, formiche, muffe, aghi di pino, cortecce di alberi o linfa di betulla.

La visione di Niko Romito

Dalle nostre parti, salvo qualche eccezione (Niko Romito in primis), gli sforzi dei grandi chef si concentrano nel ricercare e mettere insieme materie prime di pregio, trasformandole quanto basta ma ricorrendo solo raramente a tecniche davvero innovative, capaci di sfruttare a pieno le potenzialità delle singole frazioni costitutive dei grandi prodotti a disposizione.

Ma non è colpa degli chef. La ragione di questo generale conservatorismo alimentare risiede nell’enorme diffidenza del consumatore italiano verso i prodotti ottenuti attraverso il ricorso a tecniche troppo diverse da quelle tradizionali.

Usiamo pochissimo, per esempio, i prodotti disidratati, che consideriamo ingredienti degni al massimo di una mensa aziendale e che sono invece una categoria di ingredienti molto versatile per aromatizzare in modo naturale e dare personalità ai piatti. Basta visitare qualche reparto del pesce essiccato dei department store giapponesi per rendersi conto di cosa significa valorizzare davvero le risorse del mare, sfruttando con intelligenza e tecnica sopraffina tutto quello che esse contengono: dalla lisca alle squame, fino al cosiddetto quinto quarto.

E non è molto diverso l’atteggiamento verso i prodotti surgelati: siamo gli unici ad essere obbligati ad asteriscarli nei menù e quasi ci vergogniamo di ammettere che rispettiamo l’obbligo di abbattere preventivamente il pesce destinato al consumo crudo.

Il nostro ritardo rispetto ad altre culture gastronomiche, come le nord-europee, le asiatiche e quelle medio-orientali, diventa evidente quando si parla di sfruttamento delle tecniche di fermentazione o di germinazione.

Fermentazione & Germinazione: una novità?

In termini scientifici, la prima consiste nella demolizione biochimica degli zuccheri (e talvolta anche delle proteine) che avviene, con o senza l’inoculo di uno specifico starter, in situazioni controllate di temperatura e di assenza/presenza di aria, grazie all’opera degli enzimi contenuti in lieviti e batteri. Questi liberano l’energia contenuta negli zuccheri e negli amminoacidi dell’alimento e la utilizzano per sintetizzare e aumentare la biodisponibilità di una grande quantità di micronutrienti diversi.

I lievitati, il vino e gli alcolici in genere, i formaggi, i salumi e le carni frollate, le olive da tavola, il caffè o il cioccolato sono solo alcuni fra le migliaia di alimenti che devono le loro proprietà ai processi fermentativi a cui sono sottoposti.

Sono sostanzialmente due le strade che può prendere una fermentazione: la prima porta alla formazione di anidride carbonica e alcol etilico, come avviene nel caso delle bevande alcoliche o dei prodotti lievitati; l’altra, caratteristica dei formaggi e dei prodotti vegetali in salamoia, produce anidride carbonica e acido lattico e, nel caso dei vini, può avvenire anche successivamente alla fermentazione alcolica, utilizzando l’acido malico, da cui il nome di fermentazione malo-lattica.

Detta così sembra una cosa complicata, ma in realtà è un insieme di tecniche semplici e alla portata di tutti, alcune in uso già nella preistoria e molte facilmente replicabili anche fra le mura domestiche.

Lo scopo di questi processi non è solo di migliorare il gusto, creando nuove e originali sfumature di sapore, ma di conservare i prodotti più a lungo, renderli più digeribili e rifornire l’organismo dei cosiddetti “probiotici”: enzimi, vitamine, antiossidanti e microrganismi benefici per la salute.

Grazie alle fermentazioni sono nati molti prodotti-icona di tradizioni locali antichissime e tanti altri prodotti vengono “inventati” tutti i giorni, a dimostrazione della estrema versatilità di queste tecniche.

Gli esempi più significativi vengono quasi tutti da Oriente e sono preparazioni leggendarie a base di legumi, frutta e verdura, come il kimchi coreano o i crauti tedeschi, di cui già nel XVIII secolo l’esploratore James Cook sfruttava l’elevato contenuto di vitamina C per prevenire lo scorbuto a bordo, durante i suoi interminabili viaggi oceanici. Per non parlare dei giapponesi natto e miso, ottenuti dalla soia, o delle umeboshi, piccole prugne messe in salamoia e lasciate fermentare in botticelle di legno per almeno un anno.

Il conservatorismo alimentare è sinonimo di diffidenza del consumatore italiano: non siamo aperti a ciò che non è tradizione e restiamo chiusi nelle cucine delle nostre nonne!

Kimchi Coreano

Altri prodotti di questa categoria hanno acquisito negli ultimi anni grande fama salutistica, come nel caso della papaya fermentata in polvere, considerata da molti una sorta di miracolosa panacea e venduta in farmacia a 300 €/kg e più, o della kombucha, bevanda fermentata di antichissime origini cinesi che qualcuno definisce “elisir di lunga vita”, ottenuta aggiungendo al tè zuccherato una “madre” chiamata scoby (Symbiotic Culture of Bacteria and Yeast), capace di arricchirla, oltre che dei consueti probiotici, anche di acido glucarico, acido gluconico e glucosammine

Esempi molto interessanti ci sono anche nei prodotti ittici, come nel caso dello svedese surströmming, l’aringa del Baltico fermentata in una leggera salamoia.

Il conservatorismo alimentare è sinonimo di diffidenza del consumatore italiano: non siamo aperti a ciò che non è tradizione e restiamo chiusi nelle cucine delle nostre nonne!
Surströmming

Le nuove tendenze della ricerca in materia si indirizzano soprattutto verso lo sfruttamento anche in gastronomia, dopo quello che si è realizzato in enologia, delle cosiddette “muffe nobili”, capaci di aggiungere a qualsiasi prodotto note rancide eleganti e profumi di cantina. Alcuni esempi sono l’inoculo di ceppi fungini specifici in vegetali cotti nel latte o in grassi animali raffinati, le creme vegetali ottenute dalla fermentazione di semi oleosi, le stagionature di formaggi freschi in condizioni particolari oppure l’estrazione e la rielaborazione di essenze aromatiche, come avviene nella fermentazione lattica di agrumi in salamoia o nella cosiddetta “frutta nera”, prodotta attraverso la lenta reazione di Maillard che ha luogo quando si lascia fermentare la frutta per 3 mesi a 65° sottovuoto, in modo da farle sviluppare aromi inconsueti di caramello e liquerizia.

L’altro ambito di ricerca molto interessante è rappresentato dalla germinazione (o germogliazione), che invece nel riattivare, attraverso il contatto con l’acqua e in condizioni ambientali favorevoli, la vitalità di semi e più in generale di organismi botanici ormai inattivi, arricchendo così l’alimento di nuovi e preziosi principi nutritivi. Si tratta di un processo irreversibile che, sempre grazie all’attività degli enzimi, predigerisce e rende più assimilabili gli amidi, le proteine e i grassi presenti nel seme originario, creando così delle basi ideali su cui innescare eventualmente un ulteriore processo di fermentazione.

Il bulgur, un grano duro integrale germogliato, originario dei Paesi medio-orientali ma ormai molto disponibile anche da noi sotto forma di sfarinati, macinati in modo più o meno grossolano, è forse l’esempio più noto di prodotto che deve le proprie caratteristiche esclusivamente ad un processo di germinazione.

L’esempio più classico di prodotto ottenuto dalla combinazione delle due tecniche è certamente la birra, in cui al processo di germinazione dell’orzo (maltizzazione) fa seguito quello di fermentazione alcolica. Altri prodotti ottenuti dalla combinazione di queste due tecniche sono ad esempio le farine di cereali e di legumi germinati, oggi sempre più utilizzati per la preparazione di pani e pizze speciali.

C’è insomma un mondo da scoprire dietro queste tecniche, che consentono fra l’altro di diversificare in modo molto creativo forme, colori, texture e temperature di servizio dei piatti.

Chi può immaginare quali e quanti prodotti straordinari potrebbero ottenersi sottoponendo a queste tecniche dei friarielli, delle albicocche vesuviane o dei pomodorini del piennolo, oppure del bergamotto calabrese, dei lampascioni pugliesi o dei grani autoctoni siciliani? Non lo sapremo mai, fino a quando non ridurremo il nostro livello di spocchia e ci metteremo a studiare e a sperimentare seriamente, senza dormire più sugli allori conquistati dalle cucine delle nostre nonne.

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