MORIRE DI VINO - 35 anni dopo la grande tragedia
A 35 anni dall'opera del wine killer, Mr dudes e mes Giovanni Ciravegna
Nel 1971 Charles Aznavour cantava “morire d’amore”. Due anni dopo il successo del cantante armeno, una Band tunisina registra a Napoli “morire di cozze” supportati dal featuring della gogna mediatica. Ma è nel 1986 che si raggiunge l’apice, con Mr dudes e mes (dodici e mezzo) in “morire di vino”.
Ma come? Non vi dice niente questo successo planetario né tantomeno il nome dell’artista Giovanni Ciravegna?
Evidentemente i numerosi fatti che hanno travolto quell’anno, tra cui il disastro di Černobyl' e l’avvelenamento di Michele Sindona, hanno ingiustamente gettato nel dimenticatoio questo purosangue di talento italiano. Vogliamo quindi ricordarlo a 35 anni esatti dal suo più grande successo: il vino al metanolo.
Proiettiamoci dunque in Piemonte, in quelle Langhe di cui siamo convinti di una cosa su tutte: qui c’è il vino buono.
Un passo indietro, però. Siamo nell’Italia dei furfanti, quelli che tentano di contrastare l’importazione ritoccando la produzione locale, sdoganando il metanolo e convertendo la filiera vitivinicola in industria chimica. Siamo nell’Italia sgozzata dal “Mors tua vita mea”, all’apice di un gigante complotto che porterà poco dopo ai peggiori scandali della nostra Repubblica.
Basta quindi molto poco per far crollare un intero sistema e, proprio a due sorsi da Barolo e Barbaresco, è architettata la più grande truffa a danno del sistema vinicolo italiano.
Morti, feriti e lesioni permanenti titolano sulla cronaca nera, mentre un crollo nei consumi getta in subbuglio un intero Paese, prontamente diffamato dalla rapace stampa internazionale.
Come è possibile essere arrivati a tanto? Non è poi così strano se si pensa al vino come ad una normale industria, ancor meno quando alcuni soggetti contribuiscono ad industrializzarla oltremodo.
Il vino, infatti, parte dalla terra, tutti d’accordo su questo, ma il suo ciclo termina parcheggiato tra scaffali e le sue sorti sono decise da chi ha il vero potere decisionale, ovvero sempre e soltanto a lui: il consumatore. Ecco quindi come risalire a questa tragedia annunciata.
Un consumatore poco informato, infatti, tenderà a generalizzare la categoria vino in semplice bevanda dove l’unico requisito da tenere a mente è la fascia prezzo, spesso condizionata al ribasso, talmente basso da non poter sostenere un ciclo completo del prodotto. Entra in gioco allora l’industria capace di abbattere i costi aldilà della natura, della salute e delle catastrofiche conseguenze.
Ci ritroviamo così ad abituarci a bottiglioni di amabile, generici “Italia”, brik e qualsivoglia altro tipo di spremuta di uva (e speriamo sia solo uva) al di sotto dei 2 Euro, soglia ben al di sotto della dignità da mostrare ad un produttore. Dulcis in fundo, è proprio il caso di dirlo, l’industria alimentare ci ha allevati fin da piccoli alla presenza di zucchero negli alimenti, alla manipolazione delle percezioni. Cos’altro aspettarsi quindi se non lo stesso dolciore anche nei nostri amati vini?!
Perché 2 Euro non li si dà nemmeno più ai succhi di frutta, perché mai dovremmo destinarli ad un percorso che ha visto dalla terra al tappo diverse mani e mesi di lavoro? Nel mondo globalizzato si parla di carbon footprint ed impatto ambientale, di vetro leggero e blockchain, ma cosa volete che ne sappia il mosaico di lavoratori della terra. Cosa potrebbe mai importargli della fogliolina verde che certifica il BIO o il QR code sul retro etichetta. Cosa? Ecco, sono forse proprio queste mancanze l’alibi che ci consente di schiacciare il loro lavoro, costringendoli a distruggersi fisicamente mentre noi li distruggiamo moralmente con le nostre scelte. Perché il vino al metanolo non nasce come alternativa al vino di qualità, bensì come escamotage alla trappola dei prezzi, quelli che scegliamo noi ogni giorno.
Questa tremenda batosta negli anni ’80 è riuscita a trasmettere alla categoria dei produttori il dogma “meno quantità più qualità”, ma adesso tocca compiere il più grande sforzo di tutti: trasmetterlo al pubblico, ergo noi stessi, perché “dove il bere entra, l’intelligenza esce”.
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