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Pomodoro, microtossine e pesticidi: l'informazione tira a campare scatenando inutile allarmismo sul cibo

I media pur di attirare sponsor cercano a tutti costi il clickbait facendo allarme su cibo

Pomodoro, microtossine e pesticidi: l'informazione tira a campare scatenando inutile allarmismo sul cibo

I giornali non si vendono più da tempo, ma anche chi fa informazione televisiva o pubblica notizie in rete non se la passa benissimo, con migliaia di testate online che tentano disperatamente di farsi largo per accaparrarsi qualche click e convincere di conseguenza le aziende a commissionare un po’ di pubblicità. È per questo motivo che uno dei sistemi più collaudati per far quadrare i bilanci dei media consiste nello scatenare allarmismo sul cibo.

Sulla sicurezza alimentare, soprattutto dopo lo scandalo della cosiddetta “mucca pazza” della fine del secolo scorso, le istituzioni europee si sono date un sistema di leggi complesso ma molto efficace, che delega ad una apposita Autorità (l’EFSA, con sede a Parma) il compito di raccogliere ed aggiornare continuamente le informazioni scientifiche disponibili per definire, alla luce di queste, gli standard di qualità a cui devono rispondere i prodotti alimentari commercializzati in Europa. I controlli sono affidati agli organismi di controllo dei singoli Stati Membri, fra i quali gli italiani sono universalmente riconosciuti come i più efficienti di tutti, sia in termini di frequenza che di meticolosità dei controlli. Tanto per fare un esempio, nella figura che segue sono raffrontati i risultati dei controlli dell’EFSA nel 2019 sui residui di antibiotici e altre sostanze nelle carni in Europa e in Italia:

Pomodoro, microtossine e pesticidi: l'informazione tira a campare scatenando inutile allarmismo sul cibo
Pomodoro, microtossine e pesticidi: l'informazione tira a campare scatenando inutile allarmismo sul cibo
Pomodoro, microtossine e pesticidi: l'informazione tira a campare scatenando inutile allarmismo sul cibo

Sarebbe quindi normale se i media, anziché terrorizzare i lettori con ipotesi più o meno fantasiose e azzardate sui pericoli a cui si espongono acquistando questo o quel prodotto, promuovessero una informazione equilibrata, per far crescere la fiducia nelle istituzioni e migliorare la consapevolezza della gente sulle corrette modalità di acquisto, conservazione e consumo degli alimenti: per esempio spiegando che i metodi più semplici per non correre rischi sono quelli di non rincorrere sempre il prezzo più basso e di non acquistare prodotti sfusi o riconfezionati dal distributore, di cui è praticamente impossibile conoscere l’origine. Ma è pura utopia, perché con la strategia del terrorismo alimentare non si ottiene solo un risultato utile, ma due. Oltre a catturare facilmente l’attenzione dei lettori, sempre preoccupati dal rischio di mangiare veleni, i media riescono altrettanto facilmente a convincere le aziende del food (e non solo quelle, ma anche quelle che producono detersivi, cosmetici e altri generi di largo consumo) a destinare un po’ dei loro budget all’acquisto di spazi pubblicitari sulle proprie pagine, in modo da stipulare una specie di “polizza assicurativa” contro il rischio di finire sulla graticola mediatica, con conseguenze che alla fine possono rivelarsi irreparabili per il loro marchio, anche nei casi in cui i tribunali riconoscano dopo anni l’infondatezza della notizie.

A fine luglio, per esempio, su GreenMe è stato pubblicato un articolo, che fa seguito ad altri similari, sui contenuti di pesticidi e micotossine nelle conserve di pomodoro prodotte in Italia, comprese quelle che si fregiano della certificazione bio. Come spesso accade, in realtà i controlli non avevano evidenziato residui superiori ai limiti di legge in nessuno dei prodotti analizzati. Ciononostante, l’articolo avanzava dubbi e sospetti (alcuni anche in contraddizione fra loro) tali da dare in pratica al consumatore una sola certezza: qualunque prodotto che non sia stato preparato con le tue mani è pericoloso. Balla doppia, perché non è affatto vero che i prodotti trasformati siano una schifezza, così come non è vero che tutto quello che si ci si prepara da soli sia sempre e comunque sicuro.


Tutti ci preoccupiamo (giustamente) delle contaminazioni ambientali, delle materie plastiche, dei residui di antibiotici e pesticidi e di quelle sostanze di cui si hanno informazioni tossicologiche negative, come sono appunto le micotossine. Nessuno di questi contaminanti provoca però intossicazioni acute, e quindi in questi casi il rischio consiste nell’accumulo progressivo di queste sostanze nell’organismo, che è per l’appunto il parametro preso in considerazione quando si stabiliscono i limiti di legge. L’attenzione dei media è invece molto minore nei confronti degli effetti collaterali degli integratori alimentari, che dopo la pandemia si stima siano usati (anzi abusati) da oltre la metà della popolazione italiana, o dei rischi associati al consumo incontrollato dei farmaci da automedicazione:

Per non parlare delle tossine naturali, alcune delle quali possono provocare persino la morte immediata, a seguito della loro ingestione. Ci sono infatti tantissimi vegetali che, se ingeriti, possono provocare intossicazioni acute, anche letali.

Può succedere non solo con i funghi velenosi, ma anche con i noccioli di alcuni frutti, che nell’intestino liberano cianuri, o quando si raccolgono e si consumano erbe spontanee tossiche che assomigliano ad altre di uso comune: colchico scambiato per aglio ursino, aconito per radicchio selvatico, veratro per genziana, mandragora per borragine, belladonna per mirtillo, ecc. Anche diversi pesci azzurri, quando non sono eviscerati e conservati correttamente in frigorifero, possono contenere grandi quantità di istamina e sono capaci di procurare guai seri, come pure i mitili o il prelibatissimo pesce palla, che per la sua potenziale tossicità in Giappone può essere lavorato solo dai possessori di uno specifico brevetto, o anche alcuni molluschi tipici delle barriere coralline (i “cigua”) o certe alghe unicellulari presenti normalmente nel plancton marino. Tutti questi organismi possono contenere pericolose biotossine, in grado di arrivare all’uomo anche indirettamente, attraverso il consumo di altri pesci e molluschi che se ne sono cibati.

Perché Madre Natura ha previsto che alcuni organismi producano questi veleni? Semplice: per aiutarli a difendersi dai predatori. Questa difesa può avvenire sia per mezzo di tossine prodotte direttamente, sia grazie all’opera di organismi terzi come le muffe, alcune delle quali possono produrre sostanze pericolose, definite micotossine. Queste possono essere di tanti tipi, ma costituiscono un problema reale soprattutto nei prodotti secchi provenienti dalle aree tropicali, dove umidità e alte temperature rappresentano condizioni ideali per la proliferazione delle muffe, e in quelli trasportati e conservati in modo grossolano. Le filiere più direttamente esposte a questo rischio sono quelle di mais, legumi, frutta secca, spezie, caffè, riso, cereali e loro sfarinati. A queste vanno aggiunte le filiere che fanno grande uso di materie prime secche come quelle citate: la birra e i prodotti della zootecnia in genere.
Tutti i prodotti ortofrutticoli, anche quelli freschi, contengono naturalmente muffe, che vengono inattivate durante i trattamenti termici necessari per conservarli. Per misurarne la quantità si osservano al microscopio piccole quantità di succo (o di suoi derivati, come sono la passata o il concentrato, nel caso del pomodoro) e si esprime il risultato in termini percentuali: 40% di muffe significa per esempio che, suddividendo in 100 campi lo schermo del microscopio, è stata riscontrata presenza di ife (i filamenti caratteristici delle muffe) in 40 di essi. Un valore più alto di 50, che è il limite di legge, è indice di cattiva qualità, perché significa che il prodotto è stato raccolto troppo maturo o in condizioni meteo sfavorevoli, che hanno provocato una eccessiva proliferazione di muffe. Solo alcune specie di muffe presenti in questi prodotti sono in grado di produrre micotossine, ma pur non potendo escludere a priori la presenza di queste sostanze nei derivati del pomodoro (e più in generale nei derivati dell’ortofrutta), in questi prodotti questa possibilità è molto più remota di quanto non accada per quelli elencati più sopra ed è comunque regolata da leggi che definiscono in modo molto preciso quali sono i contenuti ammessi.


Si possono ottenere prodotti completamente privi di micotossine? Certo: basterebbe utilizzare grandi quantità di fitofarmaci come il Glifosate, il diserbante-essiccante divenuto tristemente famoso per l’abuso che se ne fa nei grani del Nord America proprio per prevenire la formazione di micotossine, ma non è difficile capire che così la cura sarebbe peggiore del male. L’unica soluzione può quindi consistere nel definire e controllare che i residui delle prime e dei secondi rispettino i limiti previsti per legge, anche perché le moderne tecniche analitiche sono ormai in grado di rilevare anche tracce minime di queste sostanze (obiettivo impossibile fino a pochi anni fa), consentendo non solo di individuare facilmente le partite di prodotti che ne contengono in quantità superiori, ma anche di risalire in modo puntuale, grazie alla tracciabilità di filiera obbligatoria, alle responsabilità dei produttori.

L’altra, annosa questione trattata nell’articolo citato è proprio quella dei residui di fitofarmaci. Tutti vorremmo che i prodotti della terra non subissero alcun trattamento, ma a condizione che abbiano sempre un aspetto perfetto e siano esenti da qualunque malattia. Purtroppo non è possibile, così come non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, e quindi dovremmo anzitutto metterci d’accordo con noi stessi, comprendendo che quanto più un prodotto viene ottenuto senza far ricorso a pesticidi, come avviene nel caso dei prodotti biologici, tanto più esso potrà risultare vulnerabile agli attacchi dei tanti organismi che possono deteriorarlo: insetti e altri animali, piante infestanti e infezioni fungine (cioè da muffe e lieviti, che dal punto di vista biologico sono funghi di dimensione microscopica).


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